Mercoledì 1° marzo 2023, 85 anni dalla morte di Gabriele D’Annunzio. Era soprannominato “il Vate”, titolo attribuito unicamente ad altri tre poeti italiani: Dante Alighieri (il Sommo Vate), Ugo Foscolo e Giosuè Carducci. Il dandy di Pescara non ha cambiato l’Italia soltanto con i suoi versi, ma anche attraverso l’impegno politico e militare. Il 12 marzo avrebbe compiuto 160 anni, ricorrenza che sarà celebrata al Vittoriale degli Italiani, la sua ultima residenza.
L’esteta decadentista
La figura di D’Annunzio incarna perfettamente lo spirito di fine Ottocento. Pessimista, eccentrico, contraddittorio, ma anche trasgressivo, passionale ed egocentrico. È il Vate a descriversi così attraverso il personaggio di Andrea Sperelli, protagonista de Il piacere (1889). Lo sguardo è rimasto fisso su sé stesso anche quando una parziale cecità ha compromesso la sua visuale sul mondo esterno. Anzi, questa condizione è stata fonte d’ispirazione per l’opera Notturno (1916) e per l’appellativo “orbo veggente” da lui stesso coniato.
Nonostante non sia stato insignito dei più prestigiosi premi letterari del suo tempo, l’impronta dannunziana ha lasciato il segno in altri ambiti della cultura. In campo cinematografico ha creato Maciste, eroe del kolossal italiano Cabiria (1914) – film muto di cui il poeta ha scritto anche le didascalie.
Il superuomo e le sue imprese
D’Annunzio è la personificazione del Superuomo descritto da Friedrich Nietzsche. Una figura metaforica, teorizzata dal filoso tedesco, che rappresenta «un uomo superiore, che si eleva, per la sua genialità, al di sopra della media comune».
La sua hybris si sprigiona dalle sue imprese. A cominciare dal volo sopra i cieli viennesi del 1918. In quell’occasione, con una flotta di sette aerei, sorvolò la capitale austriaca gettando migliaia di manifesti. «Viennesi! Imparate a conoscere gli italiani. – così recitava il comunicato – Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà». Una propaganda antiasburgica volta a favorire l’Italia nel primo conflitto mondiale.
Altro cielo, altra impresa. Questa volta il teatro è Fiume, città istriana contesa tra il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. «O Fiume o morte!» era il motto delle 9mila persone che, nel 1919, parteciparono alla spedizione guidata dal Vate. L’occupazione, volta ad annettere la città all’Italia, durò sedici mesi. Dopo che i ribelli rifiutarono il Trattato di Rapallo, che prevedeva la creazione dello Stato Libero di Fiume, il governo sabaudo pose fine al sogno irredentista. Annessa in seguito nel 1924 da Benito Mussolini, torna in mano jugoslava nel secondo dopoguerra.
Una figura ancora divisiva
«La damnatio memoriae non è finita. Il cambiamento parte sempre dal vertice per arrivare al sentire comune. Eppure gli storici sanno dagli anni Settanta che non fu affatto fascista». Il commento di Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, risponde al lungo filone di polemiche e critiche rivolte al poeta. Marco Barone, membro del consiglio dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), chiede che «non venga considerata più come un valore d’Italia la figura di D’Annunzio, viste le sue parole altamente offensive e razziste come manifestate nei confronti del popolo croato».