Trent’anni fa, esattamente la notte del 30 aprile 1989, il cinema rimase orfano di Sergio Leone, uno dei registi più innovativi che ebbe il coraggio di reinventare il western, il genere cinematografico “americano per eccellenza” (parole del regista statunitense John Ford). Il mito fieramente italiano, celebre per i suoi occhialoni e il sigaro sempre in bocca, ha avvicinato generazioni lontanissime tra loro a una categoria di film molto distante, quasi in contrasto, dalla corrente realista che caratterizzava il cinema italiano negli anni Sessanta e Settanta.
Sergio Leone, romano de Roma, non sapeva parlare l’inglese e non lo ha mai negato. È stato quindi il cinema americano e mondiale a doversi adattare alla sua lingua. Etichettato come “spaghetti western” in senso dispregiativo da alcuni esperti statunitensi, il western all’italiana ha modificato i connotati di un genere classico, ben definito e radicato in una cultura ben diversa dalla nostra.
Lo stile di Leone, coniato nel tempo come “Maniera Leone”, si incarna nel suo uso sapiente dello zoom, nella ricerca estenuante di sguardi, primissimi piani, colonne sonore pungenti e di un’esagerata dilatazione dei tempi narrativi e di movimenti di macchina da far invidia a Quentin Tarantino. Mette in scena (anti)eroi che incarnano la perfetta antitesi degli eroi portati sullo schermo da John Ford: le loro azioni sono mosse dal desiderio di ricchezza e non dal senso di giustizia. Negli USA infatti i suoi film erano ritenuti eccessivi, sanguinari e senza alcun legame con il senso di libertà tipico del “mito della Frontiera”. E avevano ragione, perché Leone aveva l’esigenza di esprimere coordinate culturali e politiche inclini al suo pubblico, riflessione della società italiana di quegli anni.
Tutto ebbe inizio con la celebre “trilogia del dollaro”: Per un pugno di dollari (1964), uscita con la firma di Bob Robertson in onore allo pseudonimo del padre, Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966), che diventarono pietre miliari della storia del cinema ma anche della musica, grazie alle accattivanti colonne sonore firmate da Ennio Morricone. Portarono inoltre alla fama l’allora semisconosciuto Clint Eastwood, scelto dal regista per la sua faccia di pietra tipica del personaggio “l’Uomo senza nome”: «Avevo bisogno più di una maschera che di un attore, e Eastwood a quell’epoca aveva solo due espressioni: con il cappello e senza cappello». Contro ogni aspettativa, la trilogia riscosse un enorme successo, tanto che il regista giapponese Akira Kurosawa lo accusò di aver plagiato il suo La sfida dei samurai e ottenne una percentuale sui diritti d’autore. Ma niente poté né fermare né rallentare l’ascesa di Leone.
Tornò sul grande schermo con C’era una volta il West (1968) per confermare la fama e i riconoscimenti che ormai lo precedevano a livello internazionale. Per sfatare ancora una volta il “mito della Frontiera” si avvalse dell’icona Henry Fonda, che assume per l’occasione i tratti di un assassino feroce, e Charles Bronson, che gli si contrappone in una vicenda di vendetta e morte.
Ma il vero capolavoro che segnò la sua carriera fu anche quello che purtroppo la concluse. C’era una volta in America (1984) è la storia di una disperata ricerca di un sogno che viene violentemente stroncato dalla crudeltà della vita, di un’amicizia e di gangster durante gli anni ruggenti del proibizionismo con Robert De Niro e James Woods. Una favola moderna vibrante di morale e antieroi bandiere del sogno sconfinato degli Stati Uniti.
Solo cinque anni dopo Sergio Leone morì a 60 anni nella sua casa di Roma, stroncato da un infarto. Il cineasta stava lavorando al nuovo progetto di un film sull’assedio di Leningrado, che avrebbe dovuto iniziare a girare in Russia di lì a pochi giorni. In 23 anni di carriera ha diretto sette film, segno che la forza di un’arte non si può misurare attraverso i numeri. Nel tempo la sua maniera ha fatto scuola, tanto che in moltissimi gli hanno reso omaggio. Come Clint Eastwood, diventato regista sulle orme della sua icona italiana e a cui ha dedicato Gli spietati, ma anche Quentin Trantino con il suo prossimo film, intitolato per l’appunto C’è una volta a Hollywood. Il suo talento è stato riconosciuto solamente post-mortem, ma ancora oggi vive nelle ispirazioni dei cineasti di tutto il mondo.