Cristina Cattaneo, medico legale che da anni si impegna a lavorare per restituire l’umanità ai cadaveri dei tanti migranti che affogano in mare, racconta che le cose più facili da trovare all’interno dei vestiti di queste persone sono bustine contenenti della terra. Le ci è voluto un po’ di tempo per capire che quella terra così attentamente custodita rappresenta un pezzo della patria che i migranti si lasciano alle spalle. Banalmente, anche questo è facile da immaginare. Toccarlo con mano e realizzarlo, invece, richiede una forza che è solo di chi sul “campo di battaglia” lavora tutti i giorni.
Quello che peschi dal mare è spesso irriconoscibile: il corpo si sfalda per colpa dell’acqua e del sale. La Cattaneo racconta tutto questo in un libro che si intitola “Naufraghi senza volto” (Cortina Editore). Ed è sempre lei ad aver creato il primo protocollo al mondo per identificare le vittime di un fenomeno che, dal 2001 ad oggi, ha visto scomparire in mare oltre trentamila persone.
Tra le mille storie che riporta nelle pagine del suo libro, ce n’è una che sta colpendo l’opinione pubblica negli ultimi giorni, nonostante risalga al 2015. E’ la vicenda di un quattordicenne come tanti, proveniente dal Mali. Addosso ha una giacca e all’interno di una tasca, c’è una pagella cucita con cura. L’acqua non è riuscita a cancellare del tutto gli ottimi voti che aveva. Di questo ragazzino non si sa nulla: né nome, né dove volesse andare. Ha solo pensato che quei numeri potessero aprirgli le porte di un mondo che non gli facesse paura. Makkox gli ha dedicato una vignetta che ha fatto conoscere il suo caso a tutta l’Italia e che potrebbe essere un manifesto di una storia che, come in una staffetta senza fine, ha visto troppi protagonisti che non hanno potuto raccontarsi.
Non c’è un vero prima e dopo in storie come queste. Quello che è successo, accadrà ancora, come in una spietata quanto ridicola scena di Inception. Prima di lui, nel 2013, un 17enne si è fatto cucire nell’imbottitura del giubbotto la medesima pagella. Anche lui uno studente modello. Tutti quei numeri erano il codice della porta blindata di un mondo che credeva gli si sarebbe spalancato davanti. Partiva dal Gambia, lui. Oggi quel poco che rimane del suo corpo e della sua storia riposa in un cimitero in Sicilia. Non c’è un nome sulla sua lapide. Ogni tanto, però, alcune di queste storie fanno breccia nel cuore dell’opinione pubblica. Se ne parla, sui social si passa dall’ipotesi del complotto ai monologhi appassionati sulla gestione del flusso migratorio e si ignora che quelle persone sono già morte, anche da tempo. Diventano simboli, icone senza nome e dopo un po’ vengono inghiottite di nuovo dalle onde dell’anonimato. Un nuovo naufragio, insomma. Nel 2019 l’informazione viaggia velocissima: non sarà precisa e non sarà assoluta, ma è rapida e lotta per la libertà. Queste storie sembrano però sfuggire al principio: navigano nel mare della rete e ad un certo punto una foto o una testimonianza le fanno diventare argomento di conversazione al bar. Nella vignetta di Makkox, questo quattordicenne morto nel più grande naufragio civile dal dopoguerra viene raffigurato sul fondale marino, circondato da pesci che guardano la sua pagella da “perla rara”. Non chiamateli “perle rare”, chiamateli per nome.
E’ come assistere alla scena di un cane che si morde la coda: nulla è cambiato da quando nel 2015 Matteo Renzi parlava di responsabilità verso la storia, o da quando si proponeva di esporre il relitto davanti alla sede delle istituzioni europee a Bruxelles, così che si aprissero gli occhi su cosa stava accadendo nel Mediterraneo. La campagna elettorale ha presto mangiato tutto quanto: Matteo Renzi è diventato un (timido) sostenitore dello slogan “aiutiamoli, sì, ma a casa loro” e la Lega ha dato sfogo a tutta la retorica possibile sul caso, proiettandosi come la paladina di una giustizia che vuole tutti questi ragazzini di quattordici anni a godersi l’adolescenza nel proprio Paese. Anche con le bombe che ti esplodono in testa, ma almeno sei a casa tua e non mia.
In un costante cerchio di porti chiusi e “quote” rimbalzate da un Paese dell’Unione Europea all’altro, la storia di questo quattordicenne continua a ripetersi. Dal 2014, però, l’Ufficio per le persone scomparse affida al Labanof il compito di raccogliere i dati ante e post mortem per ridare identità ai migranti deceduti. Si crea una banca dati reperendo informazioni dai cadaveri, dai resti e da informazioni ottenute con grande difficoltà da familiari di scomparsi. Nasce una banca dati per mettere a confronto tutte queste informazioni, nella speranza di identificare i corpi. Cristina Cattaneo racconta che la missione appare inizialmente impossibile: i dati post mortem sono spesso ignorati o raccolti secondo diversi protocolli per poi essere dispersi in archivi delle Procure di tutta Italia. Dall’altra parte, i dati ante mortem sono difficilmente reperibili, soprattutto se si pensa ai parenti sparsi per il mondo che neppure immaginano che qualcuno stia cercando di ricostruire la vita di un loro caro. Tramite questo lavoro, alcune storie riescono ad avere un dopo: è il caso di un bambino che aveva perso la madre durante il naufragio del 2013. Non poteva ricongiungersi all’unica zia che gli rimaneva in Svezia perché non aveva un certificato di morte. Identificando il corpo della madre, è stato aiutato.
Ad oggi sono 1.484 le schede post mortem raccolte da 17 naufragi diversi e più di 300 quelle ante mortem. Le salme identificate, però, sono meno di 50 e i casi di compatibilità ancora da approfondire sono un centinaio. Una goccia nel mare, ma mai troppo poco per Cristina Cattaneo. Il principio resta uno e semplice: un nome. Questo medico legale lavora per trovare un’identità a storie che sono sempre simili ma al contempo tutte diverse tra loro. Racconti che a lungo andare sembrano fini a se stessi se non si sa come chiamarli. E quella rete di nomi propri può essere il velo che getta ulteriore anonimato sui bei voti scritti in pagella. Oppure può aiutare a pescare dal niente le perle che non sono poi tanto rare.