Per Ferruccio de Bortoli “il giornalismo è la droga migliore della vita”. Ma soprattutto “è ancora quella professione che si fa andando a vedere i fatti di persona con cuore aperto e mente sgombra”. E lui questa professione l’ha svolta ai massimi livelli. Nasce a Milano nel 1953 e, a soli vent’anni, mentre studia giurisprudenza, entra al Corriere della Sera. La sua prima mansione è fare cartine geografiche: “Non ero neanche in grado di farle, ma pur di aver un contatto con la cronaca mi adattai a fare qualsiasi cosa”. Dal gradino più basso a quello più alto, de Bortoli diventerà direttore del primo quotidiano del Paese nel ’97. Per sei anni firmerà il giornale e nel 2003 lascerà per ragioni private. Dopo un periodo da editorialista per La Stampa, nel 2005 assume la carica di direttore de Il Sole 24 Ore fino al 2009 quando, dopo aver rifiutato la proposta di diventare presidente della Rai, tornerà alla guida del quotidiano di via Solferino per altri sei anni. Un rimpianto, però, confessa di averlo: non aver mai accettato la candidatura a sindaco di Milano. Attualmente è presidente dell’associazione Vidas di Milano e presidente della casa editrice Longanesi.
De Bortoli, come e quando è nata la sua passione per il giornalismo?
Tutto è cominciato durante gli anni dell’università, facevo giurisprudenza, e mi sarebbe piaciuto fare il correttore di bozze. Mia madre conosceva un tipografo del Giorno, e a lui chiesi di essere presentato al capo dei correttori di bozze. Così fissai un colloquio.
E come andò?
Non mi presero. Fu una grande delusione, perché era il mestiere che volevo fare. Ai tempi c’era una visione un po’ romantica dell’accesso al giornalismo. Si lavorava di sera e, quindi, era facile integrare il lavoro con lo studio. Inoltre, i correttori di bozze erano pagati molto bene, mentre ora sono completamente scomparsi.
Smaltita la delusione, quale altra strada seguì?
Conoscevo un disegnatore del Corriere della Sera, Dario Mellone, e così iniziai a fare delle cartine geografiche per la redazione cronaca. Premessa: io non so disegnare. Da lì mi si aprì la possibilità di fare uno stage al Corriere dei Ragazzi, che era un’edizione a fumetti per ragazzi dagli undici ai quattordici anni. Dopo due mesi mi assunsero come giornalista.
Poi è diventato professionista. Dove ha cominciato?
Alla cronaca del Corriere dell’Informazione, che era il giornale del pomeriggio del Corriere della Sera. Dove arrivai pochi anni dopo, alla redazione economica.
L’identità del Corriere è molto legata alla città di Milano. Avendola vissuta in prima persona, come si è sviluppato negli anni questo rapporto?
Fin dal suo esordio, alla metà degli anni ’70 dell’800, il Corriere è stato il foglio della borghesia produttiva, liberale e aperta all’Europa e al mercato. Ha accompagnato la crescita di una città che ha rappresentato, e che rappresenta ancora oggi, il principale motore di sviluppo del Paese. Oltre ad essere la capitale culturale, economica e finanziaria. Il Corriere, in questi suoi 140 anni, ha rappresentato la milanesità più di ogni altra istituzione. Facendo una sintesi tra le diverse identità della città, cattolica, laica, aperta al mercato e progressista. Ma questo percorso di crescita dell’identità milanese non è stato lineare. Ci sono state pagine di straordinario giornalismo, di raro coraggio civile e culturale, ma anche pagine oscure, come gli anni del fascismo.
L’economia è un settore che l’ha accompagnata nella sua carriera. Questa specializzazione nasce da una passione o da una necessità?
Da una passione. È vero che ho studiato giurisprudenza, ma grazie a straordinari insegnanti ho preferito seguire un indirizzo economico. Tanto è vero che, abbondantemente fuori corso, ho fatto una tesi in economia politica. In ogni caso, alla redazione economica del Corriere ci sono arrivato per caso, e da lì è nata quella passione che mi ha portato a specializzarmi.
Vista la recente crisi del Gruppo 24 Ore pensa che non ci saranno più i margini per avere un quotidiano esclusivamente dedicato all’economia italiana?
I margini ci sono. La crisi de Il Sole è transitoria, non riguarda la sua redazione che rimane una redazione straordinaria. Tra l’altro oltre al fatto di essere un grande giornale di opinione è anche un fondamentale strumento di lavoro.
Nella sua esperienza da direttore ha mai ricevuto pressioni o richieste particolari da uomini politici?
Di pressioni ne ho ricevute tante. Ho avuto anche molti scontri e sulle spalle ho molti processi, alcuni particolarmente importanti che hanno fatto la storia, come i processi che mi sono stati intentati da Massimo D’Alema da una parte, o da Silvio Berlusconi dall’altra. Le pressioni non sono di per sé scandalose, queste cose succedono in tutto il mondo. La cosa importante è cercare di continuare a fare il proprio mestiere, assumendosene i rischi, commettendo errori, ma avendo sempre chiaro in testa che un giornale è credibile perché è indipendente.
Indipendente anche dai propri azionisti?
Certo, perché un giornale non persegue altri scopi, se non quello di fornire al lettore un’informazione veramente utile e che lo sorregga nelle difficili scelte che un cittadino deve prendere ogni giorno. Non soltanto quando vota ma anche quando acquista, o quando è risparmiatore.
Quindi, come se ne esce?
Per fare questo il giornale deve essere guardiano del potere e non un cucciolo da salotto ben addomesticato. Deve essere attento soprattutto alle parti non illuminate, dove c’è scarsa informazione c’è poca trasparenza, opacità e spesso anche delinquenza e intrusione della criminalità. Si ragiona poco sull’importanza di una buona informazione, ma è proprio questo che mette un cittadino nella condizione di essere tale.
In Italia abbiamo una buona informazione?
Una buona informazione è l’architrave di una democrazia evoluta, una pessima informazione è un veleno in circolo che dispensa non notizie, ma rancori, pregiudizi o peggio forme di xenofobia. Tutto sommato in Italia, io credo che non abbiamo un giornalismo disprezzabile, c’è un certo pluralismo, forse c’è maggiore volgarità. C’è, però, una parte di società che noi non illuminiamo. Una parte solidale, che si occupa degli altri e degli ultimi e che rappresenta un capitale sociale estremamente importante.
Qual è la situazione ideale per avere meno influenze esterne?
La situazione ideale è avere un editore che pensa solo al proprio bilancio. Un giornale in equilibrio economico è certamente più autorevole, autonomo e indipendente. Avere un bilancio in rosso è la prima avvisaglia di perdita di autonomia e indipendenza. Il tutto poi è legato al fatto che la pubblicità non da sostegno ai giornali, che hanno vendite in flessione e ricavi ridotti.
Vale anche per il Corriere?
Nella storia del Corriere abbiamo avuto anche azionisti con interessi di altro tipo, che però grazie all’autorevolezza del quotidiano, che ha avuto sempre più storia, prestigio e importanza dei propri azionisti, il giornale è stato salvaguardato. Quando ci sono buoni giornalisti e persone preparate e indipendenti, la proprietà può fare quello che vuole, ma poi il giornale è diretto da un direttore che ne è responsabile.
Lei ha rifiutato due possibili cariche molto prestigiose, come la candidatura a sindaco di Milano e la presidenza della Rai. Ha mai avuto rimpianti?
Qualche rimpianto sì. Esclusivamente, però, sul versante della candidatura a sindaco di Milano. Un’offerta che mi è stata proposta per tre volte, ma tutte le volte ho pensato che non fosse giusto entrare in politica per un giornalista, anche perché lo avevo sconsigliato a molti miei colleghi. Non so se un buon giornalista, ammesso che lo sia, possa essere un buon sindaco. E soprattutto credo che nel momento in cui si fa una scelta politica, tutto ciò che si è scritto prima, viene riletto alla luce della scelta che si compie. È questo che mi ha sempre indotto a non fare scelte politiche, perché avrei dato l’impressione di averle preparate, non facendo fino in fondo il mio mestiere. In più avrei messo in forte difficoltà, il mio successore al Corriere, perché sarebbe estremamente difficile essere parziali con l’ex direttore candidato sindaco di Milano.
E per quanto riguarda la presidenza della Rai?
La Rai mi è stata offerta due volte. La prima volta avevo accettato e poi ho detto di no all’ultimo momento. È stata un’offerta bipartisan, che veniva sia dal centro-destra che dal centro-sinistra. Credo che il presidente della Rai sia un ruolo da non invidiare.
In che senso?
Lo posso dire perché per un periodo ho fatto parte della commissione Rai per assumere nuovi giornalisti. La Rai è una straordinaria azienda, con professionalità incomparabili. È la più grande azienda culturale del Paese, ma è anche forse il più grande deposito disordinato di talenti che non vengono assolutamente valorizzati. In più si presta a una sorta di “servitù” verso il potere politico per me inaccettabile e so che mi sarei trovato a disagio, per questo non ho rimpianti.
Come vede la situazione del giornalismo di oggi rispetto a come era quando lei ha mosso i primi passi in questo mondo?
Quando ho esordito in questo mondo c’era un alone di romanticismo superiore, una forte vicinanza al mondo culturale, un senso di privilegio che sconfinava anche in una condizione elitaria, e un trattamento economico fuori dal comune, che oggi non c’è più. Oggi abbiamo una professione che si è molto “normalizzata” e per alcuni versi è diventata persino impiegatizia. Con il digitale, abbiamo giornalisti con capacità nuove, che utilizzano strumenti più sofisticati. E il prodotto finale è un racconto della verità che rende grazie alle tecnologie digitali.
Come vede il futuro del mondo dell’informazione? La carta ha ancora speranze?
La carta ha ancora qualche speranza. I giornali, pur essendo in crisi, non sono mai stati così letti come adesso. Anzi, vengono letti, digeriti, analizzati e commentati in discussioni che prendono vita sui social. È positivo che in rete i navigatori vadano a controllare la veridicità dei fatti pubblicati dalle testate storiche. Vuol dire che l’identità tende a sopravvivere e non è completamente schiacciata dal digitale. Detto ciò, le regole di base non cambiano. Il giornalismo rimane quella professione che si fa andando di persona a vedere cosa succede nel mondo, con mente libera e cuore aperto, capaci di emozionarsi, incuriosirsi e con capacità di mettersi nei panni di altri, magari anche molto diversi da noi.
Oggi rifarebbe il giornalista?
Assolutamente sì. Sono stato fortunato perché ho fatto un mestiere che mi è piaciuto e di cui sento particolarmente la mancanza. Credo che questa dipendenza dal giornalismo sia una delle droghe migliori della vita.
Intervista di Giorgia Argiolas, Lorenzo Brambilla, Michela Cattaneo Giussani, Eugenia Fiore e Massimo Sanvito