Piange Alessia Pifferi. Non al sentire la sentenza di ergastolo inflittale, che pure la scuote. Piange prima, durante l’arringa del suo difensore, l’avvocato Alessia Pontenani, che per un’ora e mezza ricostruisce la vita dell’imputata, prima evocando le immagini sfocate della sua infanzia, poi sempre più nitidamente. Un crescendo che culmina in quella terribile settimana di luglio 2022, durante la quale Alessia Pifferi per sei giorni si sposta dal fidanzato a Leffe, in provincia di Bergamo, lasciando a casa da sola la piccola Diana, diciotto mesi. Abbandonata in un monolocale di via Parea, a Milano, con solo «due biberon di latte, due bottigliette d’acqua e una di teuccio», la bimba morirà di stenti.
La linea della difesa
Nella giornata dedicata all’estremo tentativo prima della sentenza, la difesa sceglie di inquadrare il tragico epilogo della vicenda in un contesto di radicata disaffezione e incuria nei suoi confronti, sin dalla più tenera età. Nel ritratto proposto dall’avvocato Pontenani, Alessia Pifferi appare come una persona fragile, problematica, abbandonata a sé stessa. Vittima di un abuso sessuale a dieci anni, figlia di un padre violento, incapace di lavorare, confinata anche in senso spaziale nella manciata di vie della periferia di Milano in cui è cresciuta. Una persona povera, deficitaria, in senso economico, culturale e forse anche intellettivo. Chiaramente non in grado di prendersi cura di qualcun altro. Ma c’è molto altro, a partire dall’ombra di “gravidanza misconosciuta” che l’avrebbe portata a partorire nel bagno di casa.
La richiesta della difesa, dunque, è quella di assolvere la Pifferi dall’accusa di omicidio, condannandola piuttosto per un altro capo d’imputazione, «abbandono di minore con morte come conseguenza di altro reato». Una colpa di tutt’altra entità, per la quale la pena detentiva va dai tre agli otto anni, contro i 21 (minimo) che spettano a chi viene riconosciuto colpevole di omicidio. Una richiesta inconcepibile per il pm, secondo il quale Alessia Pifferi «ha tradito sua figlia due volte»: quando l’ha abbandonata e ora che rifiuta di prendersi la responsabilità della sua morte.
La disputa sulla salute mentale
Nei mesi precedenti, molto si è discusso a proposito dello stato mentale di Alessia Pifferi. Per le psicologhe del carcere, oggi indagate insieme all’avvocato per falso ideologico e favoreggiamento, la donna avrebbe il quoziente intellettivo di una bambina. L’accusa l’ha giudicata da tempo capace di intendere e di volere, pur riconoscendo la diagnosi di alessitimia – una forma di mancanza di empatia – indicata nel referto della perizia psichiatrica. Un sintomo, forse, ma non una condizione patologica tale da sopprimere l’istinto materno, ha sostenuto l’accusa.
Lacrime e silenzi
Ieri, per la prima volta, Alessia Pifferi si è lasciata andare al pianto. In modo silenzioso, composto: l’avvocato dice che in pubblico si vergogna, mentre a colloquio con lei piange spesso. È la prima volta che cede alle emozioni, ma rimane un caso isolato. Nessun’altra reazione da parte sua: le labbra rimangono serrate, un’increspatura ogni tanto in un angolo della bocca tradisce lo stress a cui è sottoposta. Non accetta neanche le caramelle offertele dall’avvocato. A volte dà l’impressione di tremare, ma non proferisce mai parola. Anche quando l’avvocato, alla lettura della sentenza, le sussurra che ricorreranno in appello, si limita ad annuire. La sua voce si sente una volta sola, alla fine, quando cerca il braccio di una signora alla sua destra e le domanda: «Lei è la mia psicologa?». Una frazione di secondo, prima che gli agenti la scortino via dall’aula, in fuga dal marasma di giornalisti e fotografi che le si accalcano intorno.
Le reazioni dei familiari al processo
Nell’aula della Corte d’Assise del Tribunale di Milano, gli interventi delle parti in causa si protraggono per quasi quattro ore. Prima dell’avvocato della difesa, a parlare sono il pubblico ministero, Francesco De Tommasi, e il legale delle parti civili, Emanuele De Mitri. Il primo chiede che sia messa agli atti una memoria da lui depositata con le valutazioni sulle carte prodotte dal legale Alessia Pontenani – richiesta rigettata dalla corte. Il secondo si fa portavoce della famiglia dell’imputata, che si è costituita parte civile e avanza una richiesta di risarcimento a beneficio della madre e della sorella della Pifferi.
Entrambe sono in aula e le loro reazioni – occhiate, mormorii, fremiti – sono come una didascalia a commento dell’udienza. Le due vengono menzionate più volte nell’arringa dell’avvocato difensore, che muove nei loro confronti un’accusa di responsabilità morale. Come a suggerire che prima di Diana ci sia stata un’altra vittima, Alessia stessa. A termine del processo entrambe si concederanno alla stampa, prendendo le distanze dalla Pifferi e dalla ricostruzione del loro contesto familiare sviluppata in aula.
La lettura della sentenza
Sono circa le 13 quando la Corte si ritira in Camera di consiglio per deliberare. Dopo poco più di due ore i giudici sono già pronti a rientrare. Un tempo lampo, se si considera che in mezzo ci sarà stata anche una pausa per il pranzo. Al rientro in aula la tensione è palpabile. La sorella della Pifferi trema, la madre ha il fiato sospeso. Alessia Pifferi sfila davanti a una schiera di giornalisti con il volto rassegnato. La sua espressione si farà ancora più affranta alla lettura della sentenza da parte del giudice Ilio Mannucci Pacini.
La condanna è la più severa, come richiesto dal pm: ergastolo. Con l’aggravante dei futili motivi e del vincolo di discendenza, cioè del rapporto che intercorre tra madre e figlia. Esclusa la premeditazione. Il giudice stabilisce anche il risarcimento per i familiari, così che nel giro di tre file di posti c’è la desolazione della Pifferi e poco più indietro l’esultanza della madre e della sorella.
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