Emergenza rifugiati dalla Libia: ecco cosa (non) ha funzionato in questi due anni

 

Sono soprattutto giovani, qualcuno minorenne. Provengono dalla Nigeria, dal Senegal, dal Bangladesh e da altri Paesi dell’Africa e dell’Asia. Vivevano in Libia per guadagnare abbastanza da garantirsi un futuro tranquillo o perché dovevano fuggire da qualcosa o da qualcuno. Sono scappati da un Paese in guerra, diviso tra chi li costringeva ad unirsi all’esercito e chi voleva punirli per essere neri, quindi mercenari di Gheddafi. Sono fuggiti alla rinfusa in Tunisia per poi ritrovarsi a Lampedusa. Erano troppi per i centri d’accoglienza dell’isola. Così sono state aperte loro le porte, lasciandoli liberi di muoversi tra le strade di Lampedusa.

Il Governo Berlusconi decide di proclamare lo stato di emergenza nel Febbraio 2011 e affida alla Protezione Civile di Guido Bertolaso la gestione dei flussi. Agli africani arrivati in Italia tra l’1 gennaio e il 5 aprile (16844 censiti a dicembre 2012) viene rilasciato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ossia la possibilità di rimanere nel nostro Paese, ma non di viaggiare verso gli altri Stati europei. Il Governo stabilisce che possono restare in Italia solo alcuni mesi, fino a quando sarà esaminata la loro richiesta di asilo. In Lombardia la Prefettura, coordinata dal Commissario della Protezione Civile Gabrielli, è incaricata di trovare le strutture adatte ad ospitare i rifugiati, in collaborazione con altri soggetti istituzionali.

Da Giugno 2011 a Settembre 2011 l’attuazione del piano di emergenza è affidata a Francesco Russo, poi viene nominato “soggetto attuatore” il Vice Prefetto Vicario Vittorio Zappalorto. Vengono subito contattati alcuni Comuni per conoscere la loro disponibilità ad accogliere i migranti. “Molte volte la Protezione Civile ci avvertiva con un anticipo di 24-48 ore” spiega Vittorio Zappalorto “la nostra preoccupazione era trovare una sistemazione in poco tempo. Abbiamo avuto difficoltà molto serie per collocare queste persone, spesso nessuno le voleva”.

Artogne, un paesino di 3600 abitanti in Val Camonica, è tra gli enti locali contattati dalla Prefettura. “Abbiamo risposto che c’erano le strutture adatte all’accoglienza nel nostro Comune” spiega il Sindaco Gian Piero Cesari “dopo qualche giorno ci hanno richiamato per avvertirci che 118 ragazzi sarebbero arrivati, entro 24 ore, per soggiornare nel residence le Baite di Montecampione, una struttura distante 22 chilometri dalla zona abitata, a 1800 metri di altezza”. Altri rifugiati della Val Camonica vengono ospitati nel villaggio Miò nel comune di Pisogne, un complesso residenziale di proprietà di Antonio Colosimo, noto esponente dell’IDV lombarda.

La testimonianza di Martin e Felix, rifugiati a Montecampione

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I richiedenti asilo vivono nei residence per diversi mesi. A Montecampione la situazione è particolarmente difficile perché si tratta di un luogo isolato, privo di collegamenti con il paese, quindi è impossibile organizzare lezioni di italiano o fornire loro una buona assistenza sanitaria. “Per un lungo periodo la salute dei rifugiati è stata affidata ai medici di Artogne” spiega Carlo Cominelli, presidente dell’associazione K PAX, che si occupa di rifugiati in Val Camonica, “il sistema era organizzato con una visita a domicilio: il dottore incontrava i pazienti una volta la settimana e prescriveva loro le ricette. Se si fosse seguita la procedura alla lettera, i ragazzi sarebbero dovuti andare a piedi nella farmacia più vicina, che si trova a 22 chilometri”. Sono perciò i dottori a dover portare loro i medicinali, costringendo quindi i rifugiati africani, molto esposti alle malattie respiratorie a causa del clima freddo, ad aspettare diversi giorni per avere le cure necessarie.

Eppure le Regioni e le Provincie autonome avevano firmato un Vademecum che stabiliva di ospitare i richiedenti asilo in “strutture di accoglienza collocate in luoghi abitati o comunque facilmente raggiungibili dai servizi di trasporto pubblico”. L’accordo prevedeva anche l’organizzazione di lezioni di italiano e di corsi professionali e l’erogazione di pocket money, ossia piccole somme di denaro che dovevano servire per le spese quotidiane, come l’acquisto di sigarette o di ricariche telefoniche.

(L’albergo “Le Baite” di Montecampione dal sito clicktour.it)

Era successo però che gli alberghi avevano firmato convenzioni separate con le Prefetture. Secondo questi accordi la struttura alberghiera era tenuta soltanto a fornire il cibo e le stanze ai richiedenti asilo. In questo modo gli albergatori ottenevano 40-42 euro al giorno dallo Stato, ossia la quasi totalità del budget, 46 euro, stabilito dal Governo per ciascun rifugiato, lasciando soltanto 4-6 euro alle organizzazioni del Terzo Settore per l’assistenza e i corsi.

A Milano e Provincia, invece, l’emergenza viene gestita anche dagli enti religiosi. Tra questi c’è l’associazione “Fratelli di San Francesco” che ospita 80 rifugiati nel dormitorio di via Saponaro, fornendo loro un’assistenza completa. “Ci sono stati problemi di convivenza culturale e sociale tra i rifugiati. Inoltre alcuni ragazzi non volevano frequentare le lezioni di italiano” racconta Silvia Furiosi, responsabile della comunicazione di questa ONLUS “si sono verificate anche delle proteste, dopo che alcune cooperative avevano dato degli aiuti economici ai richiedenti asilo, senza coordinarsi con gli altri enti di accoglienza. Alcuni rifugiati, tra quelli che non avevano ricevuto i soldi, hanno pensato erroneamente che ci fossero altri finanziamenti per loro, ma le fondazioni se li fossero tenuti”.

Nonostante le difficoltà, i volontari dell’associazione sono riusciti ad aiutare i ragazzi più volenterosi a trovare un lavoro. “Volevamo renderli indipendenti economicamente in breve tempo” spiega Silvia Furiosi “l’idea era di iniziare il loro inserimento con noi per poi renderli autonomi”.

La testimonianza di Ibrahim, ospite di Fratelli di San Francesco a Milano

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Tuttavia, anche nella provincia di Milano si verificano situazioni simili a quella di Montecampione. A Pieve Emanuele, un paese di 16000 di abitanti nei pressi di Milano, circa 430 richiedenti asilo sono ospitati nel Residence Ripamonti, un albergo di lusso diretto dall’ex senatore del PDL ed ex consigliere di Pieve Emanuele, Giuseppe Milone. La struttura fa parte del gruppo Ata Hotel. Questa catena alberghiera è dal 2008 proprietà della Fondiaria SAI, compagnia assicurativa controllata dal Gruppo Ligresti attraverso Permafin.

La decisione di accogliere i rifugiati nel Residence Ripamonti non era stata presa dalla Prefettura, ma da un fiduciario della Protezione Civile, nominato da Gabrielli, che ha operato nelle primissime fasi del piano di accoglienza. “Credo sia stata una scelta in qualche modo obbligata”. commenta Vittorio Zappalorto “In quella fase era necessario offrire a questi ragazzi un alloggio in poco tempo. Bisognava sfruttare ogni disponibilità, perché ciò significava evitare che queste persone restassero senza assistenza”.

La struttura alberghiera si trova a poca distanza dal centro e capita spesso che i richiedenti asilo, inizialmente sprovvisti di pocket money, chiedano soldi ai passanti, spaventandoli.  “Il problema” spiega Paolo Festa, sindaco di Pieve Emanuele da meno di un anno ma ex capo dell’opposizione “è che la nostra è una cittadina piccola. Sarebbe stato meglio dividere i richiedenti asilo in gruppi ristretti e distribuirli nei diversi Comuni della zona, affidando l’accoglienza alle associazioni presenti sul territorio”.

 

 (L’albergo Ripamonti di Pieve Emanuele)

È l’idea che hanno avuto i volontari dall’associazione K Pax della Val Camonica, che ha gestito l’accoglienza dei profughi nel periodo successivo alla vicenda del residence di Montecampione, coinvolgendo la Comunità Montana e gli enti locali. “Abbiamo diviso i rifugiati in gruppi di 4 o 5 persone” spiega Carlo Cominelli “poi abbiamo cercato dei piccoli appartamenti, alcuni forniti dai comuni o da associazioni, altri a pagamento, risparmiando molti soldi. Il resto delle risorse è stato speso per finanziare i tirocini” Un sistema che funziona, anche grazie ad alcune idee semplici ma efficaci. “All’inizio i richiedenti asilo svolgevano lavori utili per il paese, come la pulizia dei parchi o delle strade” continua il presidente del K Pax “questo ha permesso  alla popolazione di conoscere e accettare i nuovi arrivati. È stato perciò naturale che i proprietari delle aziende si fidassero ad offrire loro un lavoro”. Non a caso più della metà delle persone assistite dal K Pax ha già trovato un’occupazione.

Se questo modello di micro-accoglienza diffusa fosse esteso ad altre parti d’Italia, consentirebbe notevoli risparmi. In molte zone del nostro Paese, l’affitto e il cibo inciderebbe per circa 700 euro al mese, ossia la metà dei 1300 euro spesi per mantenere i rifugiati negli hotel. Sarebbe quindi possibile usare più risorse per le lezioni di italiano e di corsi professionali, consentendo ai rifugiati di diventare autonomi in breve tempo ed evitando così ulteriori costi.

(Cena con i volontari, dal sito K-pax.eu)

Non c’è quindi solo un problema di efficienza, ma anche di spreco del denaro pubblico. Il sistema SPRAR, che si occupa dei rifugiati e dei richiedenti asilo in situazioni ordinarie, fissa a 35 euro il budget necessario per fornire una buona assistenza. Se questa cifra fosse stata rispettata, lo Stato avrebbe risparmiato molti milioni di euro ma, soprattutto si sarebbero accorciati i tempi dell’inserimento dei rifugiati nella società, con ulteriori vantaggi economici.

È della stessa idea Francesco Cannito, un regista che ha seguito i richiedenti asilo di Artogne per realizzare un documentario. “L’impressione è che una parte dei soldi spesi per l’emergenza siano stati buttati via. Se si spende solo per l’ alloggio e il cibo, ma poi non vengono forniti loro gli strumenti per essere autonomi, il problema è destinato a rimanere e i costi ad aumentare”. Non a caso non è stato possibile rispettare i tempi fissati per la conclusione dell’emergenza e si è dovuto ricorrere ad alcune proroghe, aumentando le spese.

Ora che l’assistenza governativa per l’emergenza si è conclusa, con l’erogazione di un buono uscita di 500 euro per ciascun rifugiato ed è cessato ogni finanziamento. Tuttavia, alcuni ragazzi ancora non sono indipendenti economicamente. La prova è che il Comune di Milano ha dovuto inserire alcuni dei rifugiati arrivati dalla Libia all’interno dell’”Emergenza Freddo”, il programma che offre cibo e alloggio ai senza tetto. Un problema in parte dovuto alla crisi economica, ma anche causato da un sistema che non è riuscito ad andare oltre la logica dell’emergenza. “Il punto è che la vicenda è stata gestita come un terremoto” spiega Cominelli “non ci si è organizzati secondo modalità differenti, eppure si trattava di una situazione molto diversa”.

È possibile che nei prossimi mesi l’Italia debba affrontare un’altra emergenza: quella dei profughi provenienti dalla Siria. Il tempo di organizzarsi c’è e i buoni modelli non mancano. Serve però la volontà politica di cambiare il sistema dell’accoglienza, per renderlo più efficiente e meno costoso.

Matteo Colombo

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