Mettiamo un mondo pre-pandemia. I destini di due compagni di banco sono identici fino alla fine della giornata scolastica, quando le strade si dividono e uno torna alla sua villetta con giardino, mentre l’altro nel proprio monolocale al piano terra. Il coronavirus ha costretto tutti a giocare a carte scoperte. Le disuguaglianze sociali, infatti, non sono un’eredità dell’epidemia, ma la polvere sotto al tappeto delle nostre realtà di fast fashion accessibile a tutti e foto abilmente modificate dai social media. Il Covid non ha reso il ricco uguale al povero, nonostante la condizione di lockdown fosse la stessa.
«La romanticizzazione della quarantena è un privilegio di classe» recitavano gli striscioni nei quartieri popolari di tutte le maggiori città spagnole. Probabilmente è vero: durante l’isolamento, non tutti hanno avuto la possibilità di fare torte o seguire un programma di workout nel salotto di casa propria. Secondo “il rapporto biennale sulla condizione abitativa in Europa” pubblicato dall’Housing Europe Observatory, in Italia soltanto il 4% della popolazione ha accesso alle case popolari, contro una media europea del 5,6%.
Gli alloggi disponibili nel nostro Paese sono circa 70.000 e le richieste approvate nel 2019 circa 650.000. Il settore dell’edilizia residenziale pubblica, per chi riesce ad accedervi, soffre la mancanza di finanziamenti e i problemi nella manutenzione. L’assegnazione risponde a criteri precisi decisi dalle regioni. Concorre il reddito, ma anche la presenza di minori all’interno dei nuclei familiari. Le condizioni imposte dalle case precarie sono state ai limiti del distanziamento sociale. Questa problematica si sposa perfettamente con l’assenza dell’attrezzatura necessaria: il 14,3% delle famiglie italiane con un minore in casa non possiede né un tablet né un computer. Tra coloro che sono attrezzati, soltanto nel 22,2% dei casi si ha a disposizione più di un computer. È un problema, quindi, se si possiede un solo pc e un fratello che frequenta in un’altra classe.
Distanze sociali: periferie e campi nomadi
Per gli abitanti delle strade meno turistiche delle città italiane, la chiusura di una scuola vuol dire la rovinosa caduta di un presidio sociale. Nessuno sembrava essersene mai davvero accorto, almeno fino all’arrivo della pandemia. L’abbandono scolastico dei “ragazzi problematici” passava sottotraccia. All’inizio qualche giorno di assenza, poi la chiamata a casa per genitori spesso poco presenti e infine la rinuncia mai davvero ostacolata dai più grandi. Chi si è sempre impegnato in prima linea, non ha mai smesso di contare le telecamere accese durante le lezioni online.
Il dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “Pier Cironi” di Prato racconta la sua esperienza con i bambini offline. «Abbiamo dato computer in dotazione anche a chi da un giorno all’altro ha visto suo padre andare in cassa integrazione – racconta-. Ne hanno beneficiato circa sessanta alunni. Il 96% dei nostri studenti ha seguito regolarmente». Una volta spento il pc, però, ognuno torna alla sua vita. Si resta in casa, ma qualcuno ha persino difficoltà a definire tali le proprie quattro mura. Sono i campi nomadi, infatti, i luoghi più periferici dell’emergenza: prima potenziali focolai di diffusione del virus per via della scarsa presenza delle istituzioni, poi sono diventati il cimitero delle speranze e dei giovani che li abitano.
L’Associazione “21 Luglio”, dopo l’ufficializzazione del decreto del 9 marzo, ha voluto studiare l’impatto delle norme sui 3.500 abitanti delle baraccopoli di Roma. La situazione della capitale suggerisce che nella seconda metà del 2019 circa lo 0,20% della popolazione ha vissuto l’emergenza abitativa all’interno degli insediamenti. Esistono diversi tipi di campi e, con la divisione, emergono anche diversi tipi di emergenza: sul territorio campione della capitale si parla di sei “villaggi attrezzati”, nei quali vivono 2.600 persone. Circa 1.250 sono minori. Si tratta dei “quartieri alti” dei campi nomadi: qui ci sono maggiori presidi sanitari e un numero di container più elevato. Anche i servizi quali luce e acqua sono migliori. Ci sono poi nove “campi tollerati”, resi più vicini alla norma di legge nel tempo. I risultati continuano a non essere ottimali. Qui vivono 880 persone, tra cui 321 minori. Nei micro-insediamenti vive la maggior parte della comunità rom. Si tratta di vere e proprie baraccopoli; luoghi in cui non sono garantiti i servizi di base. In questi campi, per molti minori è stato impossibile seguire le lezioni online.
Questo contribuisce a inasprire le differenze tra bambini rom e il resto dei compagni di classe. Già prima dell’emergenza Covid, l’isolamento di questi ragazzi era un argomento di discussione per le associazioni a tutela dei campi nomadi. Se le scuole dovessero aprire le porte a settembre, la dispersione scolastica per questi minori raggiungerebbe numeri altissimi. Nulla fa pensare che questi ragazzi torneranno in classe: hanno imparato che possono vivere senza e si sono convinti che alla scuola non importi che loro rispondano all’appello.
La buona scuola
Da settembre le sfide sono nuove, ma in qualche modo già note. Anche quella tra i banchi. Le linee guida per la ripresa non sono ancora chiare, sia per gli studenti che per gli insegnanti, eppure l’ipotesi di un ritorno in classe sembra sempre meno improbabile. I problemi strutturali degli istituti italiani rendono tutto più complicato: la questione sovraffollamento, da sempre dibattuta per via delle falle nella sicurezza delle aule, ora è una variabile importante anche per la gestione del contagio. In Calabria le mascherine sembrano essere un lontano ricordo, eppure le scuole – come nel resto d’Italia – restano chiuse.
Presidi e autorità territoriali prendono fiato e valutano i rischi di far suonare la campanella del primo giorno di lezioni. «Gli enti locali si sono mobilitati per ragionare sul consueto ritorno in classe con l’inizio dell’anno scolastico – spiega il Garante per l’infanzia e l’adolescenza della città di Reggio Calabria, il Dott. Mattia Emanuele – . Il 25% degli alunni non aveva la possibilità di collegarsi alle lezioni online. Gli interventi statali hanno diminuito la percentuale del 15%». Secondo il Garante sono molti gli istituti che si sono adoperati affinché le famiglie in difficoltà potessero reperire tablet e computer per gli studenti.
Resta però un 10% in svantaggio che la scuola e le istituzioni non sono riuscite a raggiungere. Secondo Save the Children, il fenomeno dei ragazzi disconnessi ha fatto schizzare i numeri degli studenti rinunciatari ad almeno mezzo milione. Il fenomeno si acuisce al sud, ma è sorprendentemente elevato anche nelle città più benestanti al nord. Sono proprio quelle metropoli ad essere divise in due da una linea immaginaria: da una parte le case di chi ha almeno un computer per appartamento e dall’altra i palazzi di chi è in cassa integrazione.
A raccontarcelo è proprio un professore e non uno di quelli con evidenti difficoltà ad imparare un nuovo metodo (per giunta telematico) di insegnamento. Sandro Marenco è giovane e giovanile, appassionato di lingue e comunicazione. È anche precario e il suo ruolo, con tutto quello che comporta, gli ha fatto vivere le nuove videolezioni con una consapevolezza diversa. Marenco lavora in un liceo scientifico di Alessandria. Qui, oltre a essere il professore d’inglese, ricopre anche il delicato incarico di insegnante di sostegno. La partita si complica per gli insegnanti precari. L’ipotesi iniziale era quella di congelare le graduatorie per un anno, ma sembra che il governo abbia ora optato per una strada diversa ancora da definire. È probabile però che gli insegnanti a contratto che avrebbero dovuto cambiare istituto, città o regione, dovranno comunque preparare gli scatoloni nonostante le lezioni in presenza non siano garantite.
Maturità,t’avessi preso prima
Esistono i ragazzi, ma esistono anche quegli adulti che non hanno avuto la possibilità di studiare. L’impatto della pandemia sulla loro psiche è simile a quello che ha su un giovane prossimo all’esame di maturità. Una seconda chance distrutta dal blocco delle attività può portare lo studente a sentirsi sfiduciato nei confronti dell’istruzione. A Reggio Calabria, però, gli allievi delle scuole serali hanno reagito con forza al disagio. Anna Cama, preside dell’Istituto Professionale “Boccioni-Fermi”, racconta con orgoglio il successo dei più grandi nonostante le difficoltà importanti. In questo caso sembra che la didattica online abbia aggiunto del valore all’esperienza educativa di persone che credevano di essere fuori tempo massimo per un diploma. «Una nostra allieva ha ottenuto un punteggio di 100 e lode – spiega – e il risultato le ha regalato così tanta fiducia che ha deciso di cimentarsi in un percorso universitario».
Più che al futuro, settembre somiglia al set di un film senza una trama. Il coronavirus ha sottolineato il precariato già esistente tra le mura delle scuole italiane. Il prossimo atto, se possibile, ha contorni ancora più sfocati.