Cena al carcere di Bollate: la riabilitazione passa per i fornelli

A bollate il fine rieducativo della pena incontra l’imprenditoria. È proprio “In galera” il nome del ristorante che nasce da un’idea di Silvia Polleri e che fa del carcere di Bollate un esempio virtuoso, “un modello da estendere a tutte le carceri d’Italia”, come disse Laura Boldrini durante una sua visita nel 2017. Perfetta incarnazione del finalismo rieducativo, è il primo ristorante mai aperto dietro le sbarre in Italia, in un contesto all’avanguardia dove da anni si rieduca praticando varie attività che vanno dalla musica alla cura dell’orto, dalla cura dei cavalli alla gestione della biblioteca.

Il ristorante nasce per offrire ai detenuti, regolarmente assunti, la possibilità di apprendere la cultura del lavoro attraverso un percorso di formazione professionale e responsabilizzazione che li mette in rapporto con il mercato. Il personale è formato completamente da carcerati e il menù comprende qualche piatto che ricorda ironicamente il tema della prigione come il risotto “evaso”. Insomma, un progetto di reinserimento lavorativo e sociale, brillante dimostrazione di come negli istituti penitenziari debbano valere non solo l’articolo 27 ma tutti i singoli principi statuiti dalla Costituzione, compreso il primo secondo cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.

Risocializzazione

Sbarre del carcere di Bollate

«Devono marcire dietro le sbarre»: è dietro queste parole che si cela la negazione dello Stato di diritto. La Costituzione sancisce infatti all’art. 27 che Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità devono tendere alla rieducazione del condannato” la pena quindi non può aver il sapore di una vendetta. È Lo Stato che deve salvaguardare la dignità umana e creare le condizioni necessarie affinché il reo possa reinserirsi dignitosamente nella società senza commettere nuovi reati.

Fino al 1975 il sistema carcerario aveva carattere punitivo e si basava sulla privazione e sulla sofferenza fisica come strumenti per condurre al pentimento, un sistema arcaico umanizzato con la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n°354/75 che ha sostituito definitivamente il regolamento fascista del 1931 nel tentativo di sradicare la credenza, diffusa tra la popolazione che non prova vergogna per le atrocità subite dai detenuti, di ritenere giuste le condizioni disumane in cui versano i condannati nel scontare la loro pena. I principi cristallizzati nella nostra Carta fondamentale plasmano il carcere, rendendolo un luogo in cui il lavoro cessa di essere misura afflittiva per divenire mezzo per l’affermazione della personalità del detenuto.

I numeri

La riforma ha fatto del lavoro l’elemento cardine del trattamento penitenziario, stabilendo che all’internato “salvo casi di impossibilità” deve essere “assicurato il lavoro” (art. 15 o.p.). Il lavoro diventa quindi uno dei pilastri su cui si deve basare la rieducazione del reo, un investimento sulla sicurezza al di fuori delle mura dei penitenziari, ma in Italia quello del lavoro nelle carceri è un tema avvolto da silenzio, se ne discute troppo poco. Nonostante i passi avanti, il nostro sistema carcerario è l’anello arrugginito di una catena della giustizia ancora troppo arretrata e sorda alle richieste del Consiglio Europeo e della Corte Europea dei Diritti Umani che più volte hanno chiesto l’adeguamento agli standard europei.

Sono ancora molto pochi i detenuti che lavorano, dalla relazione del Parlamento sul lavoro in carcere presentata a metà 2020 emerge che al 31 dicembre 2019 su 60.769 detenuti lavorano in 18.070, cioè il 29,7%. Di questi quasi 2.500 avevano un contratto regolare con aziende tra questi sono poco più di 800 quelli in semilibertà o in articolo 21 che quindi lavoravano fuori dai cancelli degli istituti di pena, ma pochi di loro hanno davvero continuato a lavorare con la pandemia.

Sulla base di un’analisi condotta attraverso i dati forniti dal dipartimento di amministrazione penitenziaria traspare che il numero reale di detenuti alle dipendenze di datori che non fossero l’amministrazione penitenziaria in carcere tra il 2020 e il 2021 ammonta a 400 detenuti, mentre dei quasi 1.300 detenuti che lavoravano pre-pandemia regolarmente all’esterno del carcere, sono rimasti operativi in circa 800. Durante la pandemia quindi i detenuti impiegati da aziende esterne all’amministrazione penitenziaria sono passati da circa 2000 a 1.200, registrando un calo del 40% che avrà gravi ripercussioni sui tassi di recidiva.

Davvero diminuisce la recidiva?
Carcere di Bollate

Il tasso di recidiva è da record. Il 70% degli ex-detenuti torna a delinquere ma è stato dimostrato che la percentuale scende all’1% per coloro che hanno avuto la possibilità di lavorare durante la detenzione. La recidiva reale in realtà è ancora più alta e ammonta a circa il 90%. Solo 1 su 10 esce rieducato dal carcere, questo perché se per il 79% dei reati non viene trovato il colpevole si considera che quest’ultimo con molta probabilità non sarà uno incensurato ma per la maggior parte delle volte sarà qualcuno che è già stato in carcere.

Tutto questo costituisce un peso enorme sui bilanci statali che potrebbe essere fronteggiato riducendo anche solo dell’1%. Se poi consideriamo che tra quei 18mila registrati come impegnati, la maggior parte non lavorano ma svolgono attività alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, senza contratti di alcun genere, né uno stipendio, si può parlare di solo un 4% dei reclusi che in carcere fa un lavoro vero. Una percentuale misera che tra l’altro è aggravata dalla collocazione geografica delle carceri che offrono possibilità lavorative, concentrati tutti tra Milano, Padova, a Torino o a Roma, con pochissime altre eccezioni.

 

Articolo a cura di Claudia Franchini

No Comments Yet

Leave a Reply