Sono orgogliosi e non vogliono nascondersi ma solo gridare al mondo quanto valgono i loro diritti. Gianni e Andrea sono i genitori di Anna, una bellissima bambina nata in California nell’estate del 2014. Eppure, se in America entrambi sono sempre stati padri della piccola, in Italia fino allo scorso ottobre solo Gianni ricopriva tale ruolo. «Con l’introduzione della stepchild adoption – ci racconta Andrea – il genitore cosiddetto sociale doveva andare in tribunale a chiedere di poter adottare il figlio del proprio partner (genitore legale) che con l’avvento della legge Cirinnà era diventato anche figlio del coniuge perché uniti civilmente». Insomma, una situazione paradossale. La bimba non veniva riconosciuta come figlia di entrambi ma il reddito Isee per iscrivere Anna all’asilo, giusto per fare un esempio, era calcolato sui due genitori. Andrea, a questo punto, sarebbe dovuto andare in tribunale a chiedere di poter adottare sua figlia e i suoi familiari non sarebbero stati parenti della bimba.
«Tutto questo fino a quando non si è arrivati alla semplificazione di trascrivere integralmente gli atti di nascita di bambini nati all’estero, cosa che succede anche per figli di coppie eterosessuali», racconta Gianni. «E da qui è partito il nostro iter che ha portato alla sentenza che scrive nero su bianco che non si contravviene in nessun modo all’ordine pubblico».
Ma la battaglia di Andrea e Gianni non è ancora finita, anzi è appena iniziata. Prima di tutto perché a Milano il sindaco Beppe Sala ha detto di essere stato “costretto” a fare registrare questi atti di nascita e poi perché «non è possibile che per far riconoscere i nostri diritti siamo dovuti arrivare davanti a un giudice – ha commentato Andrea – Diventerà normale quando non farà più notizia. Se c’era un dubbio di legittimità sulle nostre richieste è stato fugato nero su bianco dalle ultime sentenze. Mentre Gianni è certo che «il ghetto si crea alimentando la differenza. La lotta sarà nel far riconoscere quanto normale sia essere normali», con una genitorialità finalmente completa.
Così, per un diritto riconosciuto c’è una bandiera arcobaleno, simbolo delle rivendicazioni della comunità LGBT nel mondo. Una per ogni battaglia – legale o politica – vinta. È il caso della piccola Anna, concepita attraverso la maternità surrogata (cosiddetta gestazione per altri o gpa) e nata negli Stati Uniti. E di un’altra coppia gay, genitori di due gemelle date alla luce grazie alla tecnica della superfecondazione eteroparentale, sempre in California, che hanno chiesto e ottenuto la trascrizione integrale dell’atto di nascita all’ufficio dell’anagrafe di Milano.
C’è un filo invisibile che lega le due storie e che mette in luce una prima distanza tra il divieto in Italia della fecondazione di tipo eterologo e la gpa e, una progressiva apertura della Giurisprudenza, dalla Consulta fino ai giudici dei vari Tribunali italiani, nel riconoscere diritti finora negati alle coppie omossessuali. L’orientamento dei giudici italiani prende atto della «non dimostrata rilevanza dell’orientamento sessuale dei genitori sul benessere dei figli» e della necessità di garantire, in ogni caso, l’interesse «preminente» del minore e la dignità umana, quali principi della Costituzione e del diritto internazionale.
Due pronunce, quelle del tribunale di Milano, che confermano l’avviata rottura con il passato e, che per la prima volta riconoscono la bigenitorialità – fino a oggi concessa solo alle coppie di donne – anche a quelle di due uomini. In un caso, obbligando il Comune ad aggiungere affianco al nome del padre biologico, quello del secondo papà (genitore sociale), nell’altro, ordinando la trascrizione del documento contenente i nomi di entrambi i padri, emesso legalmente negli Stati Uniti, ma non riconosciuto dal Comune, fino al momento dell’ordinanza.
Nel caso delle gemelle, i due papà arrivati in Italia hanno immediatamente chiesto di trascrivere integralmente l’atto di nascita delle bambine. Se non ci fosse stata la sentenza le due bimbe sarebbero state clandestine nel nostro Paese senza alcun diritto ai servizi sanitari, senza permesso di soggiorno (essendo nate in America) o di residenza. Questo perché in Italia la cittadinanza si acquisisce attraverso il legame di sangue con i genitori. «Le due bimbe – spiega Manuel Girola, legale che seguito i due casi – sarebbero rimaste in un limbo senza alcun diritto».
Andrea Nicolussi, docente ordinario di diritto civile della famiglia e dei minori dell’Università Cattolica di Milano, sottolinea che «la maternità surrogata è vietata in Italia. In gioco ci sono valori di grandi rilievo come la dignità umana. Si sostiene infatti che questa pratica possa ledere sia la dignità della donna che quella del bambino. Il piccolo è infatti trattato come oggetto di scambio perché dovrà affrontare sacrifici per la formazione della sua identità e vedrà oscurata anche parte sua storia».
Un altro aspetto che emerge riguarda il principio dell’ordine pubblico. «Chi ha fatto la pratica della maternità surrogata – continua Nicolussi – si presenta con il certificato ottenuto nel Paese in cui la pratica è legale chiedendo di trascrivere quel certificato nell’anagrafe italiana. I giudici dovrebbero allora valutare se questa soluzione non sia in contraddizione proprio con l’ordine pubblico italiano».
Su questo punto insiste l’avvocato Girola: «Il giudice deve interpretare questo principio alla luce della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo che obbliga gli Stati, prima di tutto, a tutelare l’interesse del minore». Il legale ricorda che i magistrati con i due provvedimenti hanno lanciato al Legislatore un importante monito: la gestazione per altri è in questo momento vietata, ma la Costituzione non impedisce che venga legalizzata, «individuando un ragionevole punto di equilibrio tra contrapposte esigenze».
Lo sanno bene Andrea e Gianni così come tutti i genitori che lottano per i loro diritti, consapevoli che la loro battaglia – nonostante le sentenze – è tutt’altro che finita.
Servizio a cura di Chiara Colangelo ed Enrica Iacono