La Fondazione Banca degli Occhi del Veneto (FBOV) è il centro di riferimento per le regioni Veneto e Friuli-Venezia Giulia per quanto riguarda le donazioni di tessuti oculari.
Da ormai molti anni, questo ente ha approfondito – all’interno dell’insieme dei rami di ricerca attuati – anche quello relativo alle malattie rare, tra cui la sindrome EEC.
Tra i ricercatori che si occupano di questo filone di studi, c’è anche la Dott.ssa Vanessa Barbaro, ricercatrice pugliese, che collabora da circa vent’anni con la Fondazione veneta.
Grazie al suo impegno costante, insieme all’aiuto della propria squadra, la studiosa è giunta alla scoperta di una molecola capace di rallentare la degenerazione delle cellule staminali negli occhi di chi soffre della malattia rara chiamata Sindrome EEC.
Cos’è la Sindrome EEC?
La rara sindrome Ectrodattilia-displasia Ectodermica palatoschisi, chiamata anche sindrome EEC, colpisce 1 su 900.000 nati. Essa deriva da una «mutazione de novo, che interviene durante lo sviluppo embrionale, per un errore di duplicazione, nel corso della divisione cellulare», racconta la Dott.ssa Vanessa Barbaro.
«Negli individui affetti da questa patologia», aggiunge la ricercatrice, «il gene che subisce la mutazione è il p63».
Da situazioni come questa, possiamo renderci conto di come una mutazione in un singolo gene possa stravolgere un intero organismo.
Dal racconto della Dott.ssa Barbaro emerge che tali pazienti hanno l’epitelio corneale (strato superficiale della cornea) di entrambi gli occhi che, con il trascorrere del tempo, degenera sempre più. Questo accade perché le cellule staminali, invecchiando precocemente e non funzionando in modo corretto, non riescono a rinnovarlo e a mantenerlo integro. Le persone affette, così, vanno verso la perdita irreversibile della vista.
«In questi soggetti», continua la Dott.ssa Barbaro, «avviene una migrazione dell’epitelio congiuntivale che comincia a migrare sulla cornea. Tale come meccanismo agisce come protezione, in quanto, mancando l’epitelio corneale, l’occhio potrebbe essere esposto a traumi e infezioni».
Ciò provoca dolori e graduale offuscamento della vista, dato che la congiuntiva è innervata e vascolarizzata. Questo comporta la creazione di una sorta di “panno” sulla superficie dell’occhio, che non consente la corretta visione. La superficie oculare, in questo caso, non è integra, presentando ulcere ed erosioni. La cecità rappresenta il punto culmine della malattia».
Il processo è graduale e si sviluppa intensamente tra i 20 e i 40 anni, con problemi quali forte sensibilità agli occhi e fotofobia (intolleranza verso la luce). La decade peggiore, però, è quella dai 40 ai 50. Attualmente esistono lenti a contatto specifiche, definite sclerali, che, se indossate tutto il giorno, possono aiutare le persone affette da EEC a vivere meglio.
Più la manifestazione della malattia è precoce, maggiore è il livello di gravità. Per essa non è ancora possibile definire una causa, che sia ambientale o di altro tipo.
Obiettivo: un collirio contro la mutazione del gene P63
La Dott.ssa Barbaro ci racconta che Fondazione Banca degli Occhi, in precedenti studi, si è occupata di ricostruire l’epitelio corneale in pazienti con cornee danneggiate a causa di eventi traumatici (ustioni da acidi, schizzi di calce, ecc.). Ciò è stato possibile grazie alla collaborazione degli stessi pazienti, che forniscono le loro cellule, senza le quali gli studi non potrebbero essere svolti.
Così, il team si è imbattuto nella sindrome EEC, che provoca gli stessi effetti dovuti, questa volta, alla mutazione nel gene P63.«Era interessante osservare come una patologia genetica ereditaria», afferma la Dott.ssa Barbaro, «mimasse o fosse identica, dal punto di vista fenotipico, a ciò che può succedere a causa di un trauma».
«Vorremmo realizzare un collirio molecolare per curare le cellule staminali corneali dei pazienti EEC; “molecolare” perché è in grado di arrivare all’interno di esse e inattivare l’allele mutato del gene», spiega la ricercatrice. «Con questa molecola ad RNA», continua, «le cellule ringiovaniscono e riacquistano la capacità di continuare a dividersi. Così, le cellule staminali riprenderebbero a funzionare.
In vitro ciò accade. Si tratterebbe di un prodotto specifico per questa patologia, e rivolto ad una specifica mutazione. Abbiamo visto, infatti, funzionare ancora le cellule dei pazienti interessati. L’obiettivo finale è di poter offrire a tutti gli interessati, con diverse mutazioni, il beneficio di questa terapia».
Studi sui pazienti
Le donazioni di materiale cellulare da parte dei pazienti (piccole biopsie provenienti dalla mucosa orale), permettono agli studiosi di estrarre, con un processo enzimatico, le cellule staminali e metterle in coltura.
In seguito, le cellule iniziano a crescere e a moltiplicarsi, permettendo al Centro la creazione di una banca cellulare. Quest’ultima viene poi congelata, per essere usata all’occorrenza. La vita di queste cellule, però, non è infinita.
Esistono anche trapianti di mucosa orale a livello della superficie oculare, perché è un epitelio con caratteristiche simili a quello corneale.
Nelle ricerche relative alla sindrome EEC, i pazienti arruolati sono, fin ad ora, cinque: una donna di 60 anni, un ragazzo di 40 e uno di 30; inoltre, un uomo sessantenne e una bambina di sei anni, che entreranno nello studio a breve.
I segnali
Come ci racconta la studiosa, la patologia EEC si manifesta anche con altre implicazioni: i bambini possono nascere con deformità agli arti e/o labbro leporino (riscontrabili già da eventuali ecografie), caratteristiche che spesso sono associate a problemi dell’epitelio corneale.
Ciò è un primo campanello d’allarme, in quanto la EEC non è prevedibile. Se un genitore è portatore, essendo essa una malattia dominante negativa, il 50% della prole può svilupparla.
«Per le conseguenze che questa malattia rara comporta alla salute oculare dei pazienti affetti», continua la ricercatrice, «non ci sono cure al momento. Ciò che esiste è un palliativo per mantenere stabili i sintomi presenti, alleviare fotofobie e dolori. Essendo una patologia genetica», dichiara la Dott.ssa Barbaro, «solo un tentativo di terapia genica potrebbe risolvere la situazione alla base. Non ci sono alternative».
Sostegni finanziari
La Fondazione Banca degli Occhi del Veneto può contare su «collaborazioni con università, istituzioni e molti centri di ricerca anche all’estero», racconta la Dott.ssa Barbaro. «Noi siamo stati finanziati per tre volte dal Telethon francese (AFM Téléthon)», aggiunge, «e ora abbiamo in corso un bando sovvenzionato dal Ministero della Salute Italiano, che durerà altri due anni».
Inoltre, importanti sono i finanziamenti privati – come il “5 x mille” – convogliati in base alle esigenze, poiché gli strumenti per portare avanti le ricerche sono molto onerosi.
FBOV mantiene i contatti con circa 45.000 famiglie sul territorio, tra cui molte hanno vissuto l’esperienza della donazione di cornea.
«La ricerca non è immediata», afferma la Dott.ssa Vanessa Barbaro, «però, prima si interviene, prima si riesce ad evitare una degenerazione definitiva. La tempestività è il nostro obiettivo».