Prima è, meglio è: i bambini nati attraverso la fecondazione artificiale stanno meglio se conoscono sùbito la verità sulle proprie origini. Bisogna solo capire in che modo raccontargliela. Nel frattempo, il concetto di famiglia cambia, e il legame biologico tra padre e figlio diventa sempre meno rilevante.
«Mamma, mi racconti come sono nato?». Lasciamo da parte le cicogne e i cavoli: la domanda può risultare scomoda per qualsiasi madre, figuriamoci per quelle che hanno utilizzato lo sperma di donatori anonimi attraverso la fecondazione eterologa. Facendo parte delle tecniche di PMA (acronimo di “procreazione medicalmente assistita”), essa è una delle procedure che offrono una soluzione al problema dell’infertilità di coppia, aumentandone le probabilità di gravidanza.
Più nello specifico, la fecondazione eterologa prevede la presenza di una terza persona che dona i propri gameti (spermatozoi o ovociti): si tratta di una figura anonima che non vuole essere rintracciata dal figlio, proprio perché non lo riconosce come tale. I coniugi, pur non conoscendone l’identità, possono però scegliere il donatore sulla base delle caratteristiche fisiche (colore degli occhi, dei capelli ecc.) più vicine alle proprie, per due motivi. Come infatti ricorda Elena Mancini, Primo Tecnologo presso il Centro Interdipartimentale per l’Etica e l’Integrità nella Ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche, «da un lato ciò proteggerebbe maggiormente la privacy dei genitori, che non vogliono rendere evidenti le modalità con cui il figlio è stato concepito»; dall’altro perché, a livello psicologico, «quanto più un figlio ti assomiglia, tanto più lo senti tuo».
Secondo il professor Roberto Mordacci, docente di Filosofia morale e Filosofia della Storia e protettore per le scienze umane e sociali dell’Università Vita-Salute San Raffaele, le posizioni della bioetica sul tema della fecondazione eterologa sono molto diverse: «Da un lato ci sono i cattolici, tendenzialmente contrari, che usano come argomentazione principale la rottura del cerchio genitoriale: il fatto che uno dei gameti provenga da una figura esterna alla coppia potrebbe creare una frattura che il bambino potrebbe non assorbire. Dall’altro lato c’è il mondo laico, tendenzialmente favorevole, che risponde ai cattolici che l’utilizzo di gameti altrui è l’unico modo per far fronte all’infertilità di coppia e diventare genitori». Altra argomentazione utilizzata dai laici è che, «se si impedisce l’accesso di una coppia alla fecondazione eterologa, automaticamente si lede il loro diritto di avere figli».
La legge 40 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”), che esclude da queste pratiche le donne single e le coppie omosessuali, ha due articoli particolarmente interessanti. L’articolo 9 stabilisce che il donatore, al di là del legame genetico, non ha alcuna relazione parentale con il nato né può far valere su di lui alcun diritto né essere titolare di obblighi. L’articolo 8, invece, stabilisce che il bambino è figlio legittimo della coppia che ha deciso di intraprendere questo percorso. Quando cresce, però, il bambino potrebbe sentire il desiderio di ricostruire le proprie origini. Se, ad esempio, è nato grazie allo sperma di un donatore anonimo, come si deve comportare la coppia di genitori che lo sta crescendo? Ma, soprattutto, è più opportuno raccontargli tutta la verità o quanto basta?
Il diritto di sapere
Secondo Mancini, un figlio ha il diritto di conoscere le proprie origini, ma, «se ci concentriamo troppo sulla necessità di rintracciare il padre biologico, cade automaticamente il principio che sta alla base delle donazioni: l’anonimato». L’unica soluzione possibile, quindi, sarebbe la via di mezzo: «Sapere come si è venuti al mondo, ma senza sapere da chi». Concorda con Mancini anche Mordacci: «L’anonimato è un presupposto fondamentale per garantire la pratica stessa della fecondazione eterologa: se non ci fosse questa condizione, ci sarebbero senza dubbio molti meno donatori».
Secondo Mordacci, però, la tentazione del bambino di rintracciare l’identità del genitore biologico non ci dovrebbe essere: «Se questa necessità si fa pressante, significa che il figlio sta mettendo in dubbio la figura del padre pedagogico, ossia colui che lo cresce, che gli insegna i valori e con cui costruisce una relazione. L’eventuale tentativo del ragazzo, infatti, rivelerebbe un problema insito nella famiglia, che certamente non si risolve rintracciando il genitore biologico, che non aveva alcuna intenzione di assumersi alcun compito pedagogico o relazionale nei confronti del figlio». La ricetta da lui proposta, quindi, potrebbe essere la gradualità. Non essendoci uno standard universale, infatti, «non c’è a priori un’età a partire dalla quale o entro la quale il bambino debba sapere che è figlio di una fecondazione eterologa». In questo senso, dunque, «appena il nato è nell’età in cui inizia a comprendere e fare domande, gli si può raccontare la verità per step».
Attraverso una comunicazione naturale e spontanea, in un primo momento i genitori potrebbero iniziare a parlargli della nascita introducendo l’idea di un forte desiderio di genitorialità, ma al tempo stesso anche di un solido contesto medico di supporto. «Un’idea potrebbe essere dirgli, ad esempio, “volevamo un figlio, ma è servito l’aiuto dei medici”. A ciò potrebbe seguire, a distanza di tempo, una frase di questo tipo: “Come coppia, non avendo gameti adatti, siamo ricorsi a un donatore protetto dall’anonimato. Ma i tuoi genitori siamo noi, che ti abbiamo voluto e cresciuto”».
Prima è, meglio è
Uno studio pubblicato dalla Society for Research in Child Development non solo dimostra che i bambini nati attraverso la procreazione medicalmente assistita se la cavano bene, ma suggerisce anche che, per il loro benessere, la parentela biologica è meno importante rispetto alle relazioni tra il genitore e il figlio. È vero: la fase più critica rimane l’adolescenza, il momento cruciale per la formazione della loro identità: qui le persone nate attraverso la fecondazione eterologa raggiungono la consapevolezza di essere connessi non soltanto con un donatore, ma anche con “fratellastri genetici”, che potrebbero trovarsi ovunque e di cui non sanno nulla. Ciò nonostante, gli adolescenti mostrano livelli alti di adattamento e autostima. In particolare, quelli che lo sapevano sin dall’asilo godevano di un benessere psicologico e di relazioni familiari qualitativamente superiori rispetto agli adolescenti che lo hanno scoperto proprio in questa fase della vita. Insomma, prima si vuota il sacco con il figlio, meglio è: solo così avrà la possibilità di metabolizzare gradualmente le informazioni sulle proprie origini.
I nuovi orizzonti delle parole “padre” e “famiglia”
La fecondazione eterologa (così come altri fenomeni, tra cui la famiglia allargata e la maternità surrogata) ha portato la bioetica a interrogarsi sulle nuove sfaccettature che assumono i termini “padre” e “famiglia”. Se, in passato, con “padre” si intendeva colui che genera e cresce un figlio, ora invece il concetto si sdoppia: da una parte il padre biologico, ossia la figura misteriosa del donatore anonimo; dall’altra il “padre sociale”, che accudirà il bambino pur non avendo con lui alcun legame genetico. Non è la prima volta che si verifica questa distinzione: secondo Mordacci, tracce del fenomeno sono visibili anche nella Bibbia.
In effetti, il Deuteronomio (25,5-10) stabilisce, se un uomo muore senza lasciare un figlio, che il fratello del morto debba sposarne la vedova e che il primo figlio del matrimonio tra fratello e vedova venga considerato l’erede del defunto. Ciò che fa la differenza, quindi, non è il legame biologico, bensì quello paideutico. «È un fenomeno che è sempre esistito: le moderne tecnologie lo hanno semplicemente reso più frequente di prima». Mancini, inoltre, aggiunge un elemento interessante a proposito del genitore sociale: «C’è la possibilità che il padre pedagogico abbia prima, durante o dopo la gravidanza, una serie di problemi: potrebbe sentirsi tradito perché il figlio è stato ottenuto dal seme di un altro, provare sentimenti negativi verso il medico, oppure essere escluso proprio dalla compagna, che potrebbe pensare di aver concepito un figlio da sola».
Anche “famiglia” è un concetto che negli ultimi decenni si è evoluto molto, perché, secondo Mordacci, ha a che fare non più con la genitorialità (che può esserci oppure no), ma con l’idea degli affetti. La famiglia, pertanto, è quel nucleo in cui c’è un’unità affettiva di (almeno) due persone che sono tra loro legate da una forte affinità, indipendentemente dal fatto che si tratti di una coppia eterosessuale o omosessuale. Mentre nel secolo scorso, alla base dell’idea di famiglia ci stavano un uomo, una donna, un vincolo matrimoniale indissolubile e dei figli, ora la famiglia altro non è che un insieme di affetti stabili, dove l’elemento biologico è pressoché irrilevante.
La responsabilità morale in caso di gravi malattie
Data la presenza di norme comunitarie sulla lavorazione, sulla tracciabilità e sulla sicurezza di cellule e gameti, gli screening a cui sono sottoposti i donatori sono molto ampli e precisi, per avere una piena sicurezza sanitaria e per escludere la possibilità di malattie genetiche. Come osserva il professor Mordacci, però, ce ne sono alcune che dipendono dalla congiunzione dei gameti. «A meno che non ci sia stata una mancanza di screening, cosa impossibile perché le norme lo prevedono in maniera tassativa, e a meno che qualcuno non se la voglia prendere con il buon Dio, nessuno è responsabile di queste mutazioni. Certo, chi ha una posizione contraria alla fecondazione artificiale potrebbe avere la tentazione di colpevolizzare la famiglia e utilizzare la carta dell’adozione come alternativa a un bambino nato malato. In realtà, però, nemmeno nel mondo cattolico si utilizza questa argomentazione».
Tra rischi percepiti e rischi reali
Nelle banche del seme di alcuni Paesi, sono stati posti dei limiti al numero massimo di bambini per ciascun donatore. Ad esempio, in Francia un donatore non può contribuire alla nascita di più di 10 figli, mentre nel Regno Unito può aiutare 10 famiglie, senza vincolo sul numero di figli. In Italia, invece, non ci sono restrizioni. In passato era una fantasia molto diffusa l’idea di incesti sempre più frequenti nelle generazioni a venire. Sul piano statistico, tuttavia, le probabilità (comunque ridotte) dipendono dalla grandezza della comunità in cui ci si trova. Secondo Mancini, infatti, «è vero che non bisogna eccedere con le donazioni, ma per un altro motivo: per non ridurre la variabilità genetica nella popolazione. Ovviamente stiamo parlando di una ipotesi su grandi numeri».