Raccontare il male invisibile con le immagini. Fabio Bucciarelli: «La mia fotografia è una memoria storica in un momento di fake news»

Il 15 marzo 2020 Fabio Bucciarelli e la sua compagna Francesca Tosarelli raggiungono Alzano Lombardo, un piccolo paese il provincia di Bergamo. Lui fotografo e lei filmmaker, decidono di documentare l’incubo del Covid-19 in uno degli epicentri mondiali della pandemia. Lo fanno per il New York Times. Incontrano le persone e la loro sofferenza. Vogliono raccontare la tragedia attraverso i volti dei suoi protagonisti. Mostrare il male che non si vede con la grammatica dei sentimenti umani.

Nella sua carriera ha documentato conflitti e avvenimenti di vario genere. Il Covid è stato un fatto diverso dagli altri. Come si fa a fotografare un male che non si vede?

Questa è stata la vera sfida. All’inizio la pandemia veniva rappresentata con l’assenza, fotografando le piazze vuote o le autostrade invase dagli animali. Io e la mia compagna invece abbiamo messo al primo posto la presenza della gente. Abbiamo dato al Covid un viso, cercando di mostrare la resilienza delle famiglie, la forza, il dolore, la lontananza, la solitudine. Ci siamo uniti alla Croce Rossa e abbiamo documentato l’intimità delle persone entrando nelle loro case.

In molti vogliamo dimenticare quello che è accaduto nel 2020. La fotografia, però, cristallizza il tempo. Perché è importante riguardare quelle immagini di dolore?

La fotografia crea una memoria storica in un periodo in cui tutto sembra scorrere velocemente, e in cui si fa fatica a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. L’immagine permette di non mistificare la realtà, di poter affermare che una cosa è successa veramente. A partire da quella, poi, si dovrebbero fare passi in avanti: le guerre che sono scoppiate negli ultimi anni mostrano che non ne siamo stati in grado. Abbiamo usato male il tempo che abbiamo avuto a disposizione.

La vicinanza con il soggetto permette una buona fotografia. Come si è comportato nel contesto della pandemia?

La cosa più importante è stata creare, anche per poco tempo, un legame sincero ed empatico con le persone. Con alcuni di loro sono anche rimasto in contatto, a distanza di cinque anni. Per me è stato un onore incontrarli e documentare la loro vicenda.

Non c’è il rischio che fotografando situazioni di sofferenza si faccia una pornografia del dolore?

Assolutamente no. La mia fotografia evita ogni elemento splatter o morboso. E questo non vale solo per il lavoro sul Covid. Il mio modus operandi prevede innanzitutto il mettersi nei panni dall’altro, cercare di capire il suo dolore e farsi permeare. Questo è un aspetto che ha a che fare con la mia vita personale: ho perso mio padre quando avevo tredici anni e mio fratello quando ne avevo uno. Credo che la mia capacità di empatizzare con il dolore dell’altro abbia a che fare con le mie ferite.

In che modo questo aspetto emerge nel suo lavoro?

All’inizio – penso alla guerra in Siria nel 2012 – credevo che fare fotografie significasse dare risposte. Poi col tempo mi sono accorto che non è così. E allora le mie fotografie sono diventate un modo per far emergere delle domande sulla realtà, lasciando spazio allo sguardo del lettore.

E la tecnica concorre a questo.

Certo. In particolare, a livello compositivo la mia fotografia deve molto alla pittura. Tra i miei riferimenti, ci sono sicuramente artisti italiani dal Quattrocento al Seicento: quando avevo otto anni i miei mi portavano a vedere le opere di Tiziano, Tintoretto, Mantegna e Caravaggio. Poi anche gli impressionisti europei: nella costruzione del frame mi sono spesso ispirato all’opera I mangiatori di patate di Van Gogh. Il punto è usare l’estetica come strumento per veicolare un messaggio. Non mi interessano le foto vuote senza potenza informativa né contenuto giornalistico.

C’è una fotografia del lavoro sul Covid a cui è particolarmente affezionato?

A questo domanda rispondo sempre di no. Non mi interessa la fotografia in sé, ma lo storytelling di cui quella è parte. Penso al mio libro di novantuno immagini sul Sudan: non credo che lì siano contenute le migliori fotografie che ho fatto, ma sono certamente quelle che funzionano meglio per raccontare una storia. Per me è vera questa frase: kill your best picture to tell the story.

Com’è stato lavorare per il New York Times?

Un grande vantaggio è stato il fatto che mi hanno dato molto tempo per lavorare alla storia: a differenza di altri media, non avevano la fretta di dover far vedere prima degli altri le fotografie del Covid. Per le prime due settimane il lavoro non è uscito e io ho avuto più tempo per la produzione. Detto questo, non sarebbe cambiato più di tanto se le fotografie fossero uscite per altri giornali: per me ciò che conta è lasciare una memoria storica in un momento di fake news. Mi interessa dare alle persone degli strumenti per valutare la contemporaneità.

È questa, in sostanza, la missione del fotografo?

Parlando per me, direi di sì. Il senso del mio lavoro consiste nel rendermi utile: spero che le mie fotografie possano essere uno strumento di crescita individuale per qualcuno. Se poi questa crescita diventa crescita collettiva, può darsi che il mondo migliori, no? Io vivo ogni giorno con questa speranza.

*Tutte le foto contenute in questo articolo sono state scattate dal fotografo Fabio Bucciarelli*

Alessandro Dowlatshahi

Classe 1998, ho conseguito la Laurea Magistrale in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano, chiudendo il mio percorso accademico con un lavoro di ricerca tesi a Santiago del Cile. Le mie radici si dividono tra l’Iran e l’Italia; il tronco si sta elevando nella periferia meneghina; seguo con una penna in mano il diramarsi delle fronde, alla ricerca di tracce umane in giro per il mondo.

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