«La dottoressa Annalisa Malara mi guarda e mi dice che non sto più respirando. Poi, il vuoto. Questo è l’ultimo ricordo che ho». Mattia Maestri, originario di Codogno, in provincia di Lodi, è stato il primo caso accertato di Covid-19 in Italia e in Europa. Aveva 38 anni quando, dopo un mese di ricovero – di cui tre settimane in terapia intensiva – si guadagnò, suo malgrado, il titolo di “paziente 1”. A distanza di cinque anni, oggi Maestri ripercorre la sua vicenda iniziata il 20 febbraio del 2020.
“Paziente 1” è un soprannome pesante. Come ha vissuto la pressione mediatica?
«Eh, bella domanda… Con gli amici, ancora oggi, ci scherziamo su. Ma è stata dura, all’inizio. Quando mi sono svegliato in terapia intensiva, il mio nome era già finito ovunque, abbinato alle mie foto. Ero diventato una figura pubblica, mio malgrado. La gestione dell’attenzione mediatica non è stata semplice: tante cose false, tanti articoli imprecisi. Ma anche incontri veri, umani. Con alcuni giornalisti sono rimasto in contatto, altri invece si sono comportati molto male».
Quando ha capito di essere “il paziente 1”?
«L’ho scoperto solo dopo essermi risvegliato. L’ultimo ricordo che ho prima del buio è la dottoressa Annalisa Malara, dell’ospedale di Codogno, che mi guarda e mi dice che non sto più respirando. Poi, più nulla. Quando ho ripreso conoscenza, non avevo idea di cosa fosse accaduto nel frattempo. L’ho saputo a poco a poco, nei giorni successivi».
Dev’essere stato uno shock.
«Sì, assolutamente. Quando mi sono svegliato non sapevo nulla, nemmeno che fosse in corso una Pandemia. La cosa più dura, però, è stata un’altra: apprendere che mio padre non ce l’aveva fatta. Era tutto distante, filtrato da schermi, voci, dispositivi. Niente contatti fisici».
Che ricordo ha dell’ospedale?
«Un’atmosfera sospesa, surreale. Il mondo mi sembrava devastato. C’erano tante persone in difficoltà attorno a me. Era come vivere in una bolla. Dopo la guarigione sono riuscito a tornare a casa il prima possibile».

Ha ricevuto sostegno?
«Sì, da tanti. Mia moglie mi è stata vicina sempre. Poi gli amici, i colleghi, i medici. Alcuni sono diventati parte della mia vita: ho stretto un legame profondo con il dottor Raffaele Bruno e con la dottoressa Malara. È stato un periodo buio, ma anche pieno di umanità».
Dopo il ricovero, è stato anche indagato per epidemia colposa.
«Una vicenda assurda. La procura di Lodi ha poi archiviato tutto, ma il solo fatto di essere finito sotto inchiesta è stato surreale. Per fortuna la notizia non è uscita finché l’indagine non si è conclusa. Almeno quel dolore in più me lo sono risparmiato».
Pensa che la pandemia sia stata gestita bene?
«Non me la sento di esprimere giudizi. Non sono un esperto, non ho le competenze per criticare chi ha dovuto prendere decisioni difficilissime in tempi rapidi. Sicuramente ci sono stati errori, ma nessuno era pronto, né noi né il resto del mondo».
E dei negazionisti cosa pensa?
«Mi lasciano perplesso. Non riesco a capire come si possa negare l’evidenza. Abbiamo vissuto qualcosa che ha segnato la storia, che ha cambiato la vita di milioni di persone. Negarlo è come offendere chi ha perso qualcuno. Ognuno è libero di avere la propria opinione, ma arrivare a negare tutto… mi sembra davvero folle».
Come siamo cambiati, cinque anni dopo?
«Dicevamo che saremmo diventati migliori. Invece, temo che siamo tornati esattamente come prima, forse peggio. Ci siamo dimenticati troppo in fretta. Io dico spesso che la normalità è un privilegio: l’abbiamo capito quando ci è stata tolta. Dovremmo tenerlo a mente ogni giorno».
Si sente ancora il paziente 1?
«Lo sono stato, e lo sarò sempre. È un pezzo della mia identità ormai. Finché qualcuno si ricorderà di quel febbraio 2020, io sarò lì».