
«Eravamo considerati degli eroi. Come è possibile passare da essere su un piedistallo a essere scaraventati per terra?». Sono passati cinque anni dall’inizio della pandemia. Francesca Mangiatordi, dottoressa del pronto soccorso dell’ospedale di Cremona, ripercorre i momenti più importanti di quel periodo. Dalle giornate infinite in corsia, al rapporto con i colleghi, fino alla foto a Elisa Pagliarini, divenuta una delle immagini simboliche dell’impegno continuo ed estenuante del personale sanitario. Un calvario affrontato solo per l’amore verso il proprio lavoro e i pazienti. E che l’ha cambiata da un punto di vista professionale, ma soprattutto personale.
Qual era la percezione generale tra il personale sanitario nei giorni immediatamente precedenti al lockdown?
Avevamo la percezione di qualcosa che fosse distante da noi, dalla nostra realtà. In televisione sentivamo ciò che stava accadendo in Cina e pensavamo che si trattasse di una comune influenza. Non ci aspettavamo che sarebbe diventata così grave e che avrebbe causato danni così grandi. Quindi eravamo un po’ titubanti, anche se nei mesi precedenti avevamo visto delle polmoniti un po’ strane, ma ancora non sapevamo niente.
E invece, in piena emergenza sanitaria, come è stato vivere in corsia?
Eravamo presi dallo sconforto perché ci trovavamo davanti a una situazione nuova. Si trattava di un virus non noto e, quindi, non si sapeva come contrastarlo. O anche solo come agire. Non esisteva ancora una terapia. All’inizio, dal Ministero della salute, ci venivano dettati dei protocolli che variavano ogni due tre giorni, perciò l’unica soluzione era trattare i sintomi con cui si presentavano i pazienti. Abbiamo vissuto dei momenti di grande paura, perché avevamo a che fare con qualcosa che non conoscevamo. Ma, allo stesso tempo, la voglia di fare il possibile per salvare le persone era molto forte.
Cosa ricorda di quelle giornate?
Le giornate erano e infinite. Il mio turno finiva a un determinato orario, ma non staccavo realmente. Quando tornavo a casa c’era sempre un collegamento diretto con i colleghi. Ci scambiavamo messaggi dicendoci tutto ciò che accadeva in reparto. Quindi, anche se ero a casa il mio pensiero era sempre in ospedale. E la mattina mi svegliavo con l’idea di dover aiutare i miei colleghi. La stessa cosa valeva per loro. Devo dire che l’emergenza ha rafforzato il nostro rapporto. Ci sono stati dei casi in cui alcuni hanno preso il virus, ma per fortuna soltanto due sono arrivati a una situazione estrema. Di questi, purtroppo, uno è morto, mentre l’altro è finito in rianimazione e, alla fine, si è ripreso. In molti poi hanno avuto la polmonite da cui sono guariti senza avere problemi. In quei momenti era più dura, perché da venti che eravamo all’inizio, venivamo dimezzati e chi restava doveva coprire i turni scoperti. Quindi, il carico di lavoro, oltre che essere enorme nel turno stesso, raddoppiava. Però ci si aiutava tra colleghi: in quel momento non c’era più distinzione fra i reparti, erano diventati tutti reparti covid. L’idea di andare contro qualcosa tutti insieme, di vivere un momento brutto, ci ha uniti come se fossimo una squadra.
Tra i suoi colleghi c’era anche Elena Pagliarini a cui ha scattato una foto, divenuta poi virale. Quali erano le sue impressioni nel momento in cui ha immortalato quella scena?
La foto è stata scattata in un momento di tranquillità, se così lo possiamo definire. Era notte fonda, Elena si era poggiata sulla scrivania con tutti i presìdi, per riposarsi un attimo prima di finire il turno. Lei era tenerissima in quella situazione e per questo l’ho immortalata in una foto. Mi piaceva molto quell’immagine e allora l’ho postata sul mio profilo Facebook. Ma l’ho fatto anche perché c’erano i miei colleghi, in altre regioni d’Italia, soprattutto al Sud, che non credevano che ci fosse una situazione così drammatica qui al Nord. Quindi, è stato un modo per dire “guardate che la situazione non è così bella, questo è ciò che stiamo vivendo”.
Cosa rappresenta per lei quell’immagine?
Nella foto c’è tutto ciò che rappresenta quel periodo: da quello che usavamo per difenderci, per proteggerci, alla voglia di essere sempre pronti a fare il nostro il nostro lavoro. Ma ci sono anche il grande sconforto e lo sfinimento legato alla situazione. Quindi, racchiude tante emozioni. Forse ha colpito anche per questo. E poi ha fatto entrare la gente nell’ospedale, ha fatto capire ciò che stava effettivamente succedendo.
Si aspettava che diventasse subito virale?
Assolutamente no. Io l’avevo postata sul mio profilo per condividerla con i miei contatti. Tra loro c’era un mio amico giornalista, che l’ha presa e ci ha scritto un articolo. Da lì è nato tutto. Forse piaceva perché non dava indicazioni su chi fosse l’infermiere, infatti, l’identità è stata svelata dopo. E non si capiva neppure in che ospedale si fosse. Quindi poteva essere un qualsiasi posto, un qualsiasi ospedale, un qualsiasi operatore sanitario. In questo modo la foto ha rappresentato l’idea dell’ambiente sanitario in quel periodo.
Oltre alla foto di Elena, sul suo profilo ha postato anche altri scatti di alcuni suoi colleghi.
Ho postato foto che rappresentavano delle situazioni, dei momenti che accadevano in ospedale. Si trattava di momenti più particolari di contatto fra i medici, tra i colleghi. Ma anche di scambio di parole con i pazienti. E poi le maschere, i caschi che ormai avevamo sempre in mano. Ho pubblicato alcune foto, però poi mi sono distaccata, perché mi sembrava di rappresentare una realtà che era ovunque. Ormai chiunque la stava raccontando con immagini o video. La foto di Elena è stata un’apripista per far entrare le telecamere e mostrare a tutti ciò che accadeva dentro l’ospedale.
Lei è stata anche ospite in alcuni telegiornali per raccontare la sua esperienza e fare campagna di sensibilizzazione. Cosa l’ha spinta a fare divulgazione e come ha vissuto quei momenti?
Grazie all’ufficio di comunicazione, che mi ha supportato e mi ha dato le indicazioni sui vari programmi, sono riuscita a giostrare gli impegni. Diciamo che in quel periodo ero abbastanza presa da altro. Quindi, riuscivo a rubare qualche minuto quando ero a casa o a fine turno. Per me è stata sorta di terapia, perché mi ha permesso di tirar fuori e di raccontare le emozioni che stavo provando, ma soprattutto di far capire la situazione. È stata anche una specie di sfogo.
Proprio per il suo impegno in corsia ha ottenuto il premio “Il torrone d’Oro” dalla città di Cremona. Cos’ha significato quel momento?
È stato un bel riconoscimento, soprattutto perché io non sono di Cremona. Mi ha lusingato. Anche se io credo di aver fatto semplicemente il mio dovere, così come l’hanno fatto gli altri colleghi. Si tratta di riconoscimenti simbolici, che vanno a tutti i miei colleghi e questo gliel’ho sempre detto. Il mio è solo di rappresentanza, ma il riconoscimento va a tutti a tutti coloro che in quel periodo hanno messo il loro impegno. Magari non ci hanno messo la faccia, però l’impegno ce l’hanno messo tutto.
Quali sono state le maggiori difficoltà, sia sul piano professionale che personale, che ha dovuto affrontare in quei giorni così intensi?
Da un punto di vista professionale è stato difficile gestire il grande numero di pazienti. Erano tantissimi. C’erano dei giorni in cui non si riusciva davvero a contarli. Soprattutto all’inizio. Non ci si aspettava che arrivassero contemporaneamente così tante persone, tutte con un’influenza devastante. L’ospedale si è dovuto attrezzare e c’è voluto qualche giorno per preparare i posti letto e per richiamare il personale. Le risorse erano molto ridotte. Erano sproporzionate.
Invece, da un punto di vista personale, mi sembrava di svuotare il mare con un cucchiaino. Ci impegnavamo tanto su un paziente, dopo tre secondi ne arrivava un altro e si ricominciava. Andavamo avanti così fino alla fine del turno. La frase tipica era “prima o poi dovrà finire questo periodo, prima o poi ci sarà questa benedetta luce in fondo al tunnel”.
Lei in un’intervista ha raccontato di aver avuto paura di ritornare a casa dai suoi familiari.
Sì, avevo paura di contagiarli, soprattutto perché mio marito ha problemi respiratori. Per lui il covid sarebbe stato deleterio. Perciò, io cercavo sempre di lavarmi prima di uscire dall’ospedale, ma mi lavavo anche quando tornavo a casa dalla mia famiglia. Non ho abbracciato mio figlio e mio marito per un mese e mezzo. Cercavo di stare quanto più distante possibile, o comunque cercavo di adottare delle protezioni per evitare di portarmi a casa il lavoro. E devo dire che, per fortuna, non si sono mai ammalati.
C’è stato un momento in cui ha davvero sentito il peso della situazione?
Mi capitava soprattutto la mattina, appena mi svegliavo, prima di andare in ospedale. Durante la notte non riuscivo a dormire in maniera tranquilla, mi svegliavo di continuo e pensavo: “Ma è possibile? Potremo farcela? No, non ce la faremo mai”. C’erano tanti momenti di sconforto, perché mi sembrava di star perdendo tempo. Persino dormire era diventato una perdita di tempo, anche se mi serviva per riprendere le forze. Mi bastavano solo tre ore di sonno, poi mi dicevo “basta, devo tornare a lavorare”.
Come ha ritrovato la forza per andare avanti?
Onestamente non lo so. Io e i miei colleghi infermieri ci siamo sempre sostenuti a vicenda, ci dicevamo “dai ce la facciamo, continuiamo”. Poi c’era la mia famiglia, che è stata fondamentale. Mi ha sempre sostenuto e aiutato, perché sapeva che il lavoro fosse una parte di me. Ormai sono vent’anni che sono in pronto soccorso ed è un lavoro che mi piace. Ovviamente, si trattava di una di quelle situazioni in cui nessuno avrebbe mai voluto trovarsi, perché non si è preparati, ma se ti piace l’emergenza questo ti sprona a dare il meglio e ti dà la forza di continuare.
C’è qualche paziente o una scena che le è rimasta impressa?
Il vedere una madre e una figlia, arrivate contemporaneamente, che si davano conforto a vicenda. È stata una scena micidiale da un punto di vista umano, molto provante, soprattutto perché la figlia stava peggio della madre a livello respiratorio. Infatti, poi è stata intubata e portata in rianimazione. Quella è stata una scena davvero profonda. Un grande esempio di amore materno, perché la madre diceva in continuazione “fate andare lei prima in rianimazione, pensate a lei per prima”. È stata una situazione davvero pesante.
Quali sono gli insegnamenti che ha fatto propri durante e dopo la pandemia?
Ho imparato a vedere il mio rapporto con i colleghi in maniera diversa, migliore. Da un punto di vista professionale, ho capito che ci sono delle situazioni che bisogna affrontare pur non conoscendole in maniera scientifica. Infatti, in quel periodo, ho studiato tantissimo, ho cercato e ricercato qualsiasi cosa che potesse aiutarmi nel mio lavoro. Quindi, sicuramente mi porto dentro la consapevolezza che la crescita professionale ha bisogno di una grande e continua preparazione.
Invece, da un punto di vista personale, quanto la pandemia l’ha cambiata?
Mi ha reso più sensibile, un po’ più suscettibile alle situazioni e mi ha insegnato a essere più fragile da un punto di vista emotivo. Capita che in reparto arrivino pazienti più fragili: anziani che non ricevono assistenza da parte delle loro famiglie, o clochard che non ricevono assistenza sociale. Sono persone che non hanno dei punti di riferimento sul territorio e io credo di essere diventata più attenta e ricettiva verso di loro. Sento di essere ancora più sensibile alle situazioni umane.
Crede che ad oggi il suo rapporto con i pazienti sia cambiato?
No, il rapporto è sempre lo stesso. Per me il paziente viene prima di qualsiasi altra cosa. Ricordo le parole di un mio maestro della specializzazione, che diceva di considerare il paziente come un fratello o come il miglior avvocato penalista. Io lo considero come un mio fratello. Quindi, cosa faresti con tuo fratello? Come lo cureresti? La mia idea è sempre stata la stessa, sia prima che dopo il covid. Non c’è stata alcuna variazione. È cambiato, però, il modo in cui i pazienti e i loro familiari ci vedono. In quel periodo eravamo considerati degli eroi. Non lo eravamo. Eravamo soltanto persone che facevano il loro dovere. Ora, invece, il numero delle aggressioni agli operatori sanitari ormai non si conta più. E quindi, quello che mi lascia davvero perplessa è: come è possibile passare da essere su un piedistallo a essere scaraventati per terra? Noi siamo sempre gli stessi. Quelli che hanno lavorato in quel periodo sono gli stessi che lavorano ora.