Il caso del tredicenne di Palermo che si è tolto la vita sabato 11 novembre ha puntato i riflettori sul tema della salute mentale tra i giovani che, in Italia, coinvolge un numero sempre maggiore di famiglie. Secondo la Fondazione Veronesi, infatti, il suicidio è la quinta causa di morte negli adolescenti tra i 10 e i 19 anni, la quarta nella fascia d’età 15 -19 e la terza tra le ragazze. Per fare luce sull’argomento abbiamo intervistato Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta specializzato nelle problematiche evolutive di adolescenti fra i 13 e i 25 anni.
Dottor Pietropolli, è possibile notare, in adolescenti e preadolescenti, segnali di malessere interiore a cui prestare più attenzione?
I casi di suicidio in adolescenza sono contraddistinti dall’assoluta imprevedibilità. Spesso, questi episodi hanno un carattere vendicativo per attirare l’attenzione e la compassione dei cari, senza nessun segnale premonitore. Quando, al contrario, ci sono, siamo già un passo avanti. Fondamentale è dare sempre importanza a questi segnali, anche quando si tratta solo di proteste o di tentativi di manipolare il consenso. Se un ragazzo avanza l’idea della morte, bisogna agire prima che sia troppo tardi.
Come può un genitore capire e prevenire gesti estremi come il suicidio?
Sarebbe troppo bello se bastasse una parola magica da dissuadere un giovane dal compiere gesti così estremi. La modalità d’azione dipende dalla motivazione: se è di marca depressiva, non resta altro che prendere antidepressivi. È poco frequente, però, che un ragazzino si suicidi perché depresso.
Cosa spinge un adolescente a considerare la morte come unica opzione?
Generalmente il suicidio nasce da un desiderio di vendetta, da una grande voglia di rivalsa e di possedere la mente delle persone a cui si tiene. In effetti è così, basta pensare al fatto che il suicidio di un figlio rovina per sempre la vita dei genitori. La morte diventa una soddisfazione narcisistica, porterebbe al successo perché attirerebbe attenzione, ma non sarebbe la soluzione.
Cosa si può fare in questi casi?
La cosa davvero importante è non aver paura di parlare della morte e del dolore. Nel nostro Paese è diffusa la convinzione che parlare della morte istighi al suicidio. Anche nel contesto scolastico, non passa l’idea che se c’è un pericolo bisogna parlarne apertamente. Invece, con il dialogo, si può trasformare in parola il malessere che potrebbe diventare azione. Per smontare il progetto bisogna trasformarlo in pensiero, in una narrazione condivisa.
Come si può stimolare il dialogo?
Dicendo frasi come “Ti vedo molto giù, penso che la tua vita non stia andando per il meglio e non vorrei che tu pensassi alla morte come soluzione”. L’unico antidoto è parlare della morte e del suo rapporto con la vita. In questo è importante che chi dialoga con l’adolescente abbia con lui una relazione significativa, altrimenti non si verrebbe ascoltati.
Quando è giusto intervenire?
Gli psicologi, il più delle volte, vengono chiamati per lavorare con adolescenti e preadolescenti quando si è già verificato un tentativo di suicidio. Intervenire il prima possibile attraverso il dialogo è il modo più efficace per allontanare il pensiero di gesti estremi.
Siamo sicuri che un bambino sia in grado di capire e parlare della morte?
I bambini hanno il loro modo di comprendere la morte. Attraverso i film noir, violenti e horror, oppure travestendosi da personaggi come fantasmi e scheletri ad Halloween. Questo immaginario, però, non è in contatto con la cultura degli adulti, esclusi dal loro mondo di risate, scherzi e giochi. Questo è pericoloso per gli adolescenti, che potrebbero non essere in grado di gestire la violenza e la potenza che l’idea della morte ha nell’animo umano.