
«Le leggi da sole non bastano. Hanno bisogno di un terreno fertile su cui attecchire. E questo terreno è fatto di dati, consapevolezza, narrazione e linguaggio». Con queste parole, Emma Zavarrone ha aperto la giornata di studi ospitata dall’Università IULM, dedicata a un tema tanto urgente quanto ancora poco affrontato con strumenti adeguati: la violenza di genere.
L’incontro, intitolato “Data Science e violenza di genere”, ha ruotato attorno alla presentazione dell’omonimo libro firmato da Zavarrone insieme ad Alessia Forciniti e Marzia Coppola. Un volume che ha l’ambizione – e il coraggio – di far dialogare mondi apparentemente distanti: la statistica, la giurisprudenza e le scienze sociali. Un testo pensato non solo per analizzare, ma per agire. Perché, come hanno ribadito più voci nel corso dell’evento, la conoscenza deve diventare cambiamento.
Zavarrone lo ricorda chiaramente: «I fenomeni sociali non nascono dal nulla. La violenza di genere è radicata nelle strutture della nostra cultura. E proprio per questo può – e deve – essere misurata, compresa, decostruita».
Il libro propone un approccio inedito: partire dal dato, non per fermarsi a una lettura statistica, ma per aprire un ponte tra numeri, linguaggio e trasformazione sociale. Forciniti spiega che «i dati di genere sono spesso frammentari, discontinui, difficili da leggere. È come guardare dentro un caleidoscopio: ogni fonte restituisce un’immagine diversa. Ma è proprio lì che si annida la sfida: armonizzare, interpretare, dare senso».
L’obiettivo? Costruire una cultura del dato, in grado di orientare politiche pubbliche, ma anche sensibilizzare la società, scuotere le coscienze e innescare processi di prevenzione. Coppola lo ribadisce con forza: «La violenza non è solo fisica. È anche economica, simbolica, istituzionale. E troppo spesso non viene vista, né misurata».
Tra media, linguaggi e stereotipi
L’evento ospita una tavola rotonda intensa e sfaccettata, moderata dalla giornalista Elisa Pasino, che pone l’accento sul ruolo dei media nel rafforzare – o decostruire – narrazioni tossiche. Una riflessione ripresa da Matilde D’Errico, autrice e volto di programmi come Sopravvissute, che affronta senza mezzi termini il tema del «femminismo polarizzato» che domina i social.
«Il conflitto fa engagement», osserva. «Ma il rischio è che si trasformi in marketing. Alcuni account si spacciano per battaglie culturali quando in realtà cavalcano solo l’algoritmo. La violenza di genere non può essere semplificata per fare numeri».
E aggiunge: «La verità è che parlare di questi temi in modo serio richiede cura, tempo, parole giuste. Perché noi siamo le parole che usiamo».

Dai territori alle scuole: la prevenzione si costruisce presto
La dimensione pratica dell’impegno emerge anche dall’intervento di Barbara Russo, Assessora alla Promozione delle Pari Opportunità del Comune di Lentate sul Seveso, che racconta con concretezza il lavoro portato avanti sul territorio, partendo dalle scuole. Per lei, «se vogliamo cambiare davvero la cultura, dobbiamo iniziare dai bambini», sottolineando che «non serve vietare, serve educare. E serve farlo con costanza, con percorsi strutturati, coinvolgenti».
Tra i progetti più innovativi, uno su tutti: una sorta di disciplina marziale digitale per insegnare ai ragazzi a riconoscere e difendersi dai pericoli in rete. Un approccio che unisce prevenzione, empowerment e nuove tecnologie, dimostrando come anche un piccolo Comune possa fare la differenza.
Il nodo culturale e il ruolo delle istituzioni
Durante l’incontro emerge con chiarezza che la violenza di genere non può essere affrontata con approcci emergenziali o disarticolati. Serve una visione sistemica, serve coordinamento. Zavarrone lo ribadisce con una metafora efficace:
«Oggi la realtà dei dati è come un fiume che si disperde in mille rivoli. Serve una cabina di regia, una strategia unitaria, un linguaggio condiviso. Perché senza dati armonizzati non possiamo fare prevenzione vera, possiamo solo contare le vittime a posteriori».
Il messaggio viene rilanciato anche da Coppola, che mette in luce il divario culturale ancora presente nel diritto di famiglia e nelle dinamiche economiche post-separazione. «Oggi le donne lavorano, ma pagano ancora il prezzo della maternità e della cura. E nel momento della separazione, questo si trasforma in una nuova vulnerabilità economica».
Dati, sì. Ma anche umanità
In chiusura, l’incontro lascia ai presenti una convinzione profonda: non basta contare, bisogna ascoltare. I dati sono uno strumento formidabile, ma vanno accompagnati da una visione umana, empatica, plurale. Perché la violenza di genere non riguarda solo le donne, ma tutte le persone che non si conformano ai modelli dominanti.
«Abbiamo voluto restituire uno sguardo concreto e plurale», spiega Zavarrone. «Siamo partite da frasi fatte, da luoghi comuni. Ma dietro ogni frase, c’è una dinamica da decostruire. E noi vogliamo farlo con i dati alla mano».
Un obiettivo ambizioso, ma necessario. Perché le parole possono ferire, ma anche curare. E il sapere, se ben coltivato, può diventare un atto politico. E rivoluzionario.