Sono passati mille giorni dall’inizio dell’operazione speciale lanciata da Vladimir Putin contro l’Ucraina. Mille giorni da quanto la guerra è tornata protagonista nel Vecchio Continente. Mille giorni da quando la guerra, con forza, è tornata a essere uno strumento di soluzione delle controversie internazionali. Mille giorni dall’inizio di una carneficina che ha provocato almeno 1 milione tra morti e feriti solo tra i militari, di cui 2/3 russi.
Oggi, a mille giorni di distanza da quel 24 febbraio 2022 la situazione è, se possibile, ancora più incerta. Vladimir Putin ha appena firmato un decreto che aggiorna la dottrina nucleare di Mosca che consentirà al Cremlino di usare armi nucleari contro uno stato privo di ordigni atomici se supportato da una potenza nucleare.
Al tempo stesso, la vittoria di Trump negli Stati Uniti apre nuovi scenari di instabilità in cui è complesso poter tracciare una direttiva chiara. La tanto decantata amicizia con Putin e le promesse di chiudere la guerra in 24 ore del Tycoon sembrano non reggere il confronto con la realtà.
L’inizio: 24 febbraio 2022
Il 24 febbraio 2022 le truppe di Mosca varcano i confini nazionali ed entrano in Ucraina. L’attacco avviene su due versanti. Una parte dell’esercito penetra da nord e procede verso Kiev con l’obiettivo di deporre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Il putsch programmato dal Cremlino non va a buon fine, però. I soldati russi vengono respinti alle porte della capitale dai militari e dai volontari del Paese invaso. Un’altra parte, invece, entra da sud e presidia Kherson e Mariupol.
Nei giorni successivi Putin capisce che non può prendere l’Ucraina in quattro e quattr’otto come aveva previsto. Marzo e aprile sono mesi di insolita fatica per i soldati di Mosca, che a maggio sono addirittura costretti alla ritirata. L’affondamento dell’incrociatore Movska, il 14 aprile, è un chiaro segno che la difesa di Kiev sta funzionando. In piena fiducia, l’esercito di Zelensky torna controllare la regione di Kharkiv e il Dnipro.
Per Putin l’acme della crisi si ha con la distruzione del ponte che unisce la Russia alla Crimea. Il Cremlino è quindi obbligato a ordinare la mobilitazione dei coscritti. Negli ultimi mesi del 2022 i russi si mettono in difesa e costruiscono oltre mille chilometri di trincea. La controffensiva ucraina riceve impulso grazie ad addestramenti di truppe in Germania e a sistemi d’arma della Nato.
La guerra continua
Nel giugno del 2023 l’esercito di Kiev attacca una zona a sud di Zaporizhzhya per aprirsi un varco verso la Crimea. Nello stesso mese, il capo della Wagner, Evgenij Prigozhin, ordina ai suoi uomini di marciare su Mosca in un tentativo di golpe, stroncato da Putin.
L’evento è un turning point nel conflitto: Putin vara la produzione bellica di massa e concentra gli sforzi bellici in Donbass. Decisivi in questa fase sono i droni, che costringono gli ucraini ad abbandonare diverse piazzeforti conquistate nei mesi precedenti. Intanto da una parte e dall’altra vengono rimpolpati gli eserciti. La leva militare però premia più i russi che gli ucraini, che non riescono a garantire una copertura efficace in tutti i reparti.
Il 6 agosto Zelensky penetra in Kursk, una regione della Russia meridionale, prendendo il controllo di quattrocentotrenta chilometri quadrati. È un duro colpo per la credibilità interna del Cremlino. Putin reagisce aumentando la forza d’urto in Donbass e ampliando le sue conquiste.
Trump e Putin
Il lavoro degli analisti non è mai stato così complesso come oggi. Tracciare una prospettiva per il futuro del conflitto è estremamente difficile. Senza dubbio, la vittoria di Donald Trump era ed è l’opzione preferita di Mosca.
La personalità ingombrante e peculiare del Tycoon può aprire spiragli di varia natura. Dalle promesse verbali alle provocazioni in grado di infiammare la popolazione, aumentando la possibilità di margini di trattativa.
Durante la campagna elettorale, Trump si è presentato come propenso a voler risolvere la questione ucraina. Dichiarazioni definite come «sincere» da Putin in chiusura del recente vertice dei Brics.
Ciò che il nuovo presidente americano esprime è un malessere diffuso della popolazione americana. La maggioranza degli statunitensi è rabbiosa. Vuole preservare il dominio a stelle e strisce nel mondo ma, al tempo stesso, evitare di essere coinvolta, soprattutto economicamente, in conflitti lontani e sanguinosi.
I 60 miliardi di aiuti americani a Kiev, siglati da Joe Biden e che, quasi certamente, sarebbero stati rinnovati da Kamala Harris, hanno turbato più l’elettore medio rispetto a una fine raffazzonata della guerra.
Certo, i recenti casi di cronaca hanno dimostrato come i rapporti tra Trump e Putin siano tutt’altro che amichevoli. Il giallo della telefonata in cui i due leader si sarebbero scontrati a tal punto da negare l’esistenza del colloquio ne è solo l’esempio più lampante.
Trump proverà senza dubbio a costringere le parti a un trattato ma, ovviamente, senza denigrare il ruolo statunitense. Una pace frettolosa renderebbe inutile il dispendio economico di Washington e potrebbe apparire molto più fallimentare del ritiro in Afghanistan del 2021.
Una pace possibile?
Dunque, una pace ma che sia vantaggiosa anche per gli Stati Uniti. La politica estera di Washington non si basa solamente sulle inclinazioni del presidente. È una politica che si basa su apparati tecnici, il cosiddetto Deep State. Con Cia e Pentagono in prima linea. Sono organi composti da persone che masticano geopolitica per vocazione o professione, applicando una visione di lungo periodo.
Dal lato presidenziale, comunque, mancano garanzie o spiegazioni sulle strategie di Trump. L’unica anticipazione è arrivata dal vice alla Casa Bianca, JD Vance. Il numero due del Tycoon ha dichiarato che l’Ucraina dovrebbe demilitarizzare i territori occupati dalla Russia e dichiararsi neutrale. Scenario difficile solamente da immaginare senza un cambio di rotta a Kiev oppure una contropartita di grande sostanza.
A rendere complessa la fine del conflitto in tempi brevi è anche la posizione di Mosca. La guerra per il Cremlino sta andando bene. Adagiarsi su un trattato di pace ora significherebbe rinunciare alla conquista di aree di Kiev che all’inizio della guerra sembravano impossibili.
Anche il consenso interno in Russia resta molto forte. E a giocare un ruolo chiave è stata la Cina. L’isolamento occidentale di Mosca ha gettato l’Orso nelle braccia del Dragone, diventando di fatto una colonia economica di Pechino.
Fattore che non può essere ignorato né da Trump né dagli apparati. La competizione globale si gioca sull’Asse Washington-Pechino. Ecco allora che, forse, il motivo più stringente per avvicinarsi a Mosca è quello di allontanare la Federazione dalle mire cinesi.