Chi non ha mai desiderato ricordare i primi mesi della propria vita? Rivedere i volti giovani dei genitori ancora inesperti, rivivere il primo sorriso, il calore di un abbraccio, o il senso di protezione nel momento del bisogno. Eppure, per quanto intensi possano essere stati quei momenti, nessuno riesce a riportarli alla mente in età adulta. Un blackout che prende il nome di amnesia infantile e che sembra essere un vero e proprio enigma.
Una ricerca pubblicata su Science a marzo 2025, sembra però aprire una finestra inedita su questo mistero, suggerendo che i ricordi dei primi mesi di vita non scompaiono del tutto: restano, ma diventano inaccessibili.
Lo studio, coordinato dal neuroscienziato cognitivo Nicholas Turk-Browne della Yale University, rappresenta una svolta nella comprensione dell’amnesia infantile, un fenomeno per cui nessuno riesce a ricordare gli eventi che ha vissuto fino ai 3 o 4 anni di età. Fino a qualche anno fa si attribuiva la causa dell’amnesia al fatto che le reti neurali dei bambini non fossero ancora sufficientemente sviluppate per registrare dei ricordi. Questa ricerca cambia però le carte in tavola.
La risonanza magnetica funzionale svela l’attività dell’ippocampo
Usando la risonanza magnetica funzionale (fMRI), i ricercatori hanno osservato in tempo reale l’attività cerebrale di 26 neonati svegli, tra i 4 e i 24 mesi di età, sottoposti a un esperimento progettato per misurare la memoria visiva. Durante il test, ai bambini venivano mostrate alcune immagini per pochi secondi. Dopo circa un minuto queste venivano riproposte e affiancate da altre nuove. Dato che i neonati in quella fascia di età non sono ancora in grado di parlare e dire chiaramente se riconoscono un’immagine, il team ha utilizzato come indicatore il tempo di fissazione degli occhi: se un bambino guardava più a lungo una figura nota, significava che ne aveva ricordo.
«Grazie all’apparecchiatura della risonanza magnetica funzionale è possibile vedere qual è la regione del cervello che si attiva quando noi facciamo un certo compito neurocognitivo», spiega Lino Nobili, Neurofisiopatologo e Neuropsichiatra Infantile, professore ordinario all’Università di Genova e direttore della Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale G. Gaslini. «Dallo studio è emerso che mostrando ai neonati un’immagine che avevano già visto in precedenza si verificava l’attivazione dell’ippocampo posteriore dove risiede anche la memoria visiva. Un fenomeno che evidenzia quindi il precoce sviluppo della memoria episodica che conserva in sé la capacità che abbiamo di ricordarci delle esperienze con dei dettagli: il cosa, il dove e il quando».
A sorprendere è il fatto che questa attivazione dell’ippocampo — l’area cerebrale cruciale per la formazione dei ricordi — si possa osservare già nei bambini di 12 mesi. Nei piccoli sotto i 9 mesi, invece, questa attività non è ancora evidente, a dimostrazione che la capacità di codificare i ricordi si sviluppa in modo sempre più preciso progressivamente.
L’idea che l’ippocampo sia completamente immaturo nei primi anni viene quindi ora superata.
Ricordi formati ma inaccessibili
Il punto cruciale, però, è che questi ricordi, pur essendo formati, diventano difficilmente accessibili una volta cresciuti. L’ipotesi è che la nostra incapacità di ricordare non derivi quindi dalla mancanza di codifica delle esperienze, ma da una difficoltà nel recuperare le informazioni. Studi precedenti condotti su animali avevano già suggerito questa possibilità, che ora trova conferma anche negli esseri umani.
In particolare, la teoria trova riscontro negli esperimenti sui roditori. Un topo che da piccolo ha imparato un’azione come quella di uscire da un labirinto può sembrare aver dimenticato tutto una volta adulto. Eppure, i neuroscienziati sono riusciti a riattivare quei ricordi stimolando le giuste cellule nervose, a dimostrazione del fatto che le informazioni non erano svanite ma erano state messe da parte, in un luogo della memoria chiuso, a cui i ricercatori hanno trovato il modo di accedere.
I problemi sorgerebbero quindi nella fase successiva alla codifica, quando il ricordo dovrebbe stabilizzarsi e integrarsi nella memoria. In questa fase possono intervenire fattori che lo rendono inaccessibile: il consolidamento potrebbe essere fragile o disturbato, oppure potrebbero entrare in gioco meccanismi che, pur non cancellando le informazioni, le nascondono alla nostra coscienza. Le cause possono essere di tipo biologico, come la riorganizzazione delle sinapsi o la formazione di nuove connessioni neurali, ma anche di natura psicologica.
L’influenza del caregiver sullo sviluppo mnemonico
I ricercatori suggeriscono inoltre di tenere a mente tutte le variabili individuali che potrebbero influenzare, nel bene e nel male, lo sviluppo della memoria. Tra questi, la relazione con il caregiver, in particolare con la madre. «Quello che emerge dalla ricerca è che lo sviluppo della memoria viene facilitato se c’è una madre che dà conforto, che risponde in maniera immediata alle richieste di protezione o di coccole, che si assicura che il figlio stia bene, ci parla, lo aiuta con la sua narrazione, con il linguaggio e di conseguenza a formare dei ricordi che abbiano una loro coerenza», sottolinea Grazia Attili, professoressa emerita di Psicologia Sociale all’Università La Sapienza di Roma.
Attili spiega inoltre come l’interazione verbale contribuisca a strutturare la memoria. «Una madre che quando è insieme al bambino gli parla di quello che il piccolo sta provando o guardando, fa sì che quella che è solo una memoria episodica – dato che il cervello del bambino registra quello che vede e sente – diventi anche una memoria semantica che ha anche un suo significato. Questo permette che i ricordi rimangano più impressi perché non sono sporadici. Quindi, con la narrazione e con il linguaggio, una madre che è molto presente, facilita la formazione dei ricordi».
La presenza di un attaccamento sicuro favorisce dunque la costruzione di ricordi stabili e coerenti. Al contrario, «un attaccamento insicuro in cui la madre non è prevedibile o è molto scostante, fa sì che i ricordi diventino confusi, contraddittori e non riescano a inserirsi in un contesto chiaro».
Strategie e tecniche per educare la memoria
La qualità dei ricordi dei neonati, comunque, è rudimentale: brevi, fragili e legati a stimoli semplici. Il compito usato nello studio, chiamato “paradigma della memoria successiva”, serve proprio a rilevare l’accensione iniziale della memoria, non le sue forme più complesse come il richiamo libero o l’associazione concettuale, ma rappresenta comunque un primo passo per capire quando e come nasce la memoria nell’essere umano.
Per aiutare la registrazione dei ricordi si possono usare alcune semplici tecniche didattiche. «La memoria funziona meglio quando c’è uno stimolo multimodale.
La cosa migliore è spiegare qualcosa e poi far vedere una figura che mostra in forma grafica ciò che è stato spiegato. Il passo successivo è proporre un’attività motoria che riprende le cose dette al bambino e le trasforma in azioni, in movimenti», osserva Roberto Trinchero, professore ordinario di Pedagogia Sperimentale presso l’Università di Torino.
Tra gli strumenti più efficaci per costruire la memoria ci sono le routine quotidiane, che permettono ai bambini di ordinare le esperienze e strutturarle in sequenze coerenti. Anche il gioco ha una funzione educativa e mnemonica tutt’altro che secondaria. «Quando un bambino nel gioco interpreta un ruolo significa che sta rielaborando delle informazioni che ha appreso dai genitori o tramite altri stimoli esterni. Queste informazioni vengono richiamate nella memoria e trasformate in azioni, in questo modo il bambino riesce a rinforzare i propri ricordi autonomamente».
Per favorire la formazione di rappresentazioni mentali durature è quindi fondamentale il coinvolgimento simultaneo di diversi canali sensoriali (visivo, uditivo, cinestetico). «In ogni fase dello sviluppo il nostro cervello riceve informazioni dall’esterno, ciò che è importante è lavorarle costantemente cercando di sfruttare più canali possibili. Più il bambino crescerà, più sarà fondamentale dare un senso agli stimoli. Crescendo si passa infatti dalla memoria episodica, che fa riferimento ai fatti e agli stimoli, a una memoria semantica che fa riferimento ai significati».
Le emozioni, infine, giocano un ruolo centrale. «Se noi associamo delle emozioni a degli specifici concetti, queste emozioni rinforzano anche il ricordo del concetto. Più in generale, se io ho vissuto delle emozioni positive quando ho imparato qualcosa, quelle emozioni positive vengono associate a ciò che ho appreso e riesco a memorizzarle con più facilità. Il meccanismo di ricordo funziona anche con le emozioni negative, però le emozioni negative sono qualcosa che le persone cercano in qualche modo di evitare. Quindi, cercando di rimuovere le emozioni negative, si rimuove anche il ricordo di quella cosa», conclude Trinchero.
I risultati dello studio offrono nuove prospettive sullo sviluppo cognitivo precoce e sulle strategie per potenziare la memoria nei bambini, in particolare in presenza di disturbi del neurosviluppo. Se davvero, come ora appare, la memoria esiste fin da piccolissimi, allora anche le esperienze più precoci contano più di quanto pensassimo. Una cosa è certa: la mente dei neonati è molto più attiva e complessa di quanto si sia creduto finora e l’amnesia infantile non sembra essere altro se non il risultato di un sistema di archiviazione di cui abbiamo perso l’accesso.