Nel 2023 in Italia ci sono state 1467 morti sul lavoro, pari a 4 morti al giorno. Un fenomeno che non accenna a diminuire neanche adesso, nelle prime settimane del 2024. Ma quali sono le storie di vita che si celano dietro vittime spesso invisibili?
Ripercorriamo attraverso il toccante racconto della madre le ultime 24 ore di Gabriele di Guida, morto sul lavoro nel 2019 a soli 25 anni. Ventotto minuti intrappolato in un impianto per la verniciatura. Gabriele lavorava da meno di tre mesi per la packaging Silfa di Sulbiate, in provincia di Monza. E da quel macchinario non ne è uscito vivo.
Il racconto della madre
«Gabriele è morto il 10 aprile. Viene assunto il 28 gennaio. Dopo svariati anni di cooperative arriva l’opportunità di un contratto a tempo determinato, con la promessa che sarebbe diventato indeterminato. È entusiasta, anche per le promesse di crescita che gli fanno all’interno dell’azienda».
La packaging Silfa è un’impresa specializzata nella lavorazione di lamiere che vengono trasformate in lattine. È tra le leader del settore, ma trovare operai specializzati è complicato.
«Mi diceva ‘mamma qui posso crescere’. Inizia da addetto di fine linea e in soli 40 giorni diventa capolinea. Noi siamo entusiasti perché finalmente ha qualcosa di concreto».
Gabriele all’inizio viene affiancato da un collega più esperto. Dopo due settimane lavora già in autonomia. Ma in realtà non è proprio così, come dimostrano le ripetute richieste telefoniche a un collega.
«Io penso: ‘caspita, un lavoro così importante in così poco tempo’. Ma mi preoccupo della visita medica, essendo lui spesso a contatto con dei solventi. Questa lamiera bisogna anche verniciarla. E Gabriele è un soggetto allergico, prende la cefazolina ogni giorno». Il suo controllo è previsto per il 12 aprile. Ma Gabriele non arriverà mai a quel giorno.
Le complicazioni
«Deve gestire un macchinario molto importante, per il quale non è preparato. Ma lui si impegna tanto e intorno al 40° giorno ci manda una foto con scritto ‘Gabriele Di Guida, capolinea’. Ricordo che mio marito disse proprio queste parole: ‘Caspita, abbiamo fatto il Maradona della produzione’».
Dal processo emerge che il macchinario per la verniciatura avrebbe dovuto avere una copertura a protezione del vano. Una mancanza che si è rivelata fatale.
«Non sapevo quale fosse esattamente il suo incarico. So solo che arrivava a casa sempre più stanco e stressato. Molte cose non ci tornavano. Finché non arriviamo alla settimana dell’incidente».
È la seconda settimana di aprile. «Lunedì Gabriele fa il turno di mattina. Di solito tornava a casa alle 14:30. Quella volta sono le 15 passate e gli dico: ‘Cavolo Gabri, hai fatto tardissimo’. E lui: ‘Sì mamma guarda, adesso mi lavo di corsa e torno al lavoro’».
Ester gli chiede cosa è successo: «È tutta la mattina che la macchina non funziona», risponde Gabriele.
«È molto protettivo, mi dice sempre di non preoccuparmi. In realtà in casa l’angoscia cresce sempre più. Anche mio marito lo contatta. Gli risponde con un vocale: ‘Sì papà, tutto a posto non ti preoccupare, domani mattina mi fanno vedere come si usa il macchinario’». Un’altra dimostrazione che la formazione non era avvenuta correttamente.
«Poi scopriremo che lui quel lunedì aveva scritto alla fidanzata. C’erano le parolacce che ne facevano di lui un ragazzo di 25 anni, ma la sua voce era molto provata: ‘Questa settimana è iniziata di me…a. Non funziona niente. Sembra che tutto il mondo sia contro di me. Probabilmente mi hanno fatto un malocchio’. Tutte cose che non erano da mio figlio».
Gli ultimi giorni
I problemi ci sono da settimane. Ad esempio, in quella precedente Gabriele torna a casa ricoperto di vernice. «Era azzurro come un puffo. In lui c’era lo sconforto totale. Il non riuscire a lavorare, il non poter dimostrare le sue capacità».
Un forte stress esercitato sul lavoratore. Questo emerge più volte dagli atti giudiziari. E arriviamo a mercoledì 10 aprile, il giorno dell’incidente. «La sera prima Gabriele, che era una buonissima forchetta, non finisce di mangiare. Era triste e stanco. Guarda la partita col padre e va a dormire in silenzio. Non lo sentiremo più. La mattina dopo mancano i suoi soliti rumori. Stava un’eternità a lavarsi i denti, ma non quel giorno. Io non riesco ad alzarmi, ho un forte senso di inquietudine. Di solito saluto sempre i miei figli prima che escano».
Gabriele se ne va. Sua madre non può neanche dargli quello che sarebbe stato l’ultimo saluto. «È troppo tardi. Alle 5:30 del mattino non posso svegliare il condominio. Mi dico, vabbè poi torna. Alle 10 vado a lavoro e alle 10:15 ricevo la telefonata di Giorgia, la ragazza di Gabriele. Lei abita a 500 metri dalla packaging Silfa ed è stata allertata dalla madre. Là c’è un viavai di ambulanze e vigili del fuoco. Si parla di un ragazzo appena assunto, un giovane. Per cui pensano subito a Gabriele».
Giorgia chiede a Ester se avesse sentito Gabriele. Lei risponde di no. «Giorgia probabilmente sapeva tutto, ma non era lei che doveva dirmelo».
L’incidente mortale
Ester si precipita in azienda insieme a Giorgia. Lì trova il circo mediatico al gran completo. «C’è l’operatore Rai e quello Mediaset. I vigili del fuoco e le ambulanze. Si sospetta che sia qualcosa di grave. Ma in questi casi uno si aggrappa alla speranza». Ester chiama l’azienda. Parla con molte persone, ma nessuna ha il coraggio di dirle la verità.
«Chiamo mio marito e per non farlo preoccupare gli dico che Gabriele non sta bene. Gli mando la posizione per non farlo entrare su Internet. A quel punto la notizia poteva essere già in rete. Intanto richiamo l’azienda: ‘Per favore, stavolta non mi metta giù’. Non sanno come comportarsi: ’Guardi signora, io non posso dirle niente, deve venire qua’».
Ester insiste. «’Mi dica se l’ambulanza è arrivata’. Lui mi risponde di sì. Gli chiedo se mio figlio fosse solo. Dice di no. Mio marito intanto è svenuto per terra. Mi rivolgo agli operai: ‘Gabriele era a lavorare sulla macchina che non funzionava?’ Loro fanno un passo indietro e capisco tutto».
Il processo e le responsabilità
In tribunale si scopre che Gabriele, come capolinea, doveva essere affiancato da una seconda persona. «I guanti hanno fatto attrito, se lo sono portato dentro». Gabriele passa 28 lunghissimi minuti intrappolato tra i rulli. Il responsabile della sicurezza lo vede penzolare dalla macchina a due metri d’altezza. È già troppo tardi.
Se qualcuno fosse stato al suo fianco, sarebbe andata diversamente. Ma spegnere l’impianto costa troppo. Le manutenzioni vengono fatte a macchina in moto. «Se l’avessero soccorso prima, forse avrebbe perso un braccio. Ma sarebbe ancora qui. Ricordo che dall’ambulanza mi dissero: ‘Suo figlio ha aspettato lei per il suo ultimo battito’».
Durante il processo gli inquirenti hanno riscontrato numerose irregolarità. «Non c’era un dispositivo di sicurezza in quell’azienda. Se adesso lavorano tutti al sicuro lo devono a mio figlio».
La Silfa ha risarcito la famiglia con 40mila euro. Chi ha progettato e venduto il macchinario con 24mila. «Il fatto che abbiano patteggiato è un’ammissione di colpa. Ma che prezzo può avere? Ogni giorno torno casa e siamo in tre, non in quattro. Quindi chi è che ha avuto l’ergastolo in tutta questa storia?»