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LA VALIGIA DELL’ATTORE: INTERVISTA A DARIO MERLINI DELLA COMPAGNIA ÒYES

Intervista a Dario Merlini degli studenti del primo anno del Master di Giornalismo, Università IULM, Milano. Testo a cura di Michela De Marchi Giusto e Manuela Perrone.

«Quando ho cominciato a recitare nei primi anni Duemila c’erano più opportunità per recitare sul palcoscenico» osserva l’attore, autore e regista teatrale Dario Merlini, ospite al Master di Giornalismo dell’Università IULM di Milano. «Oggi è diverso, ci sono meno occasioni e non basta aspettare di essere scritturati. Il mestiere è incerto, ma la costanza e l’impegno spesso ripagano…».

Merlini si è diplomato all’Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 2005. Pochi anni dopo, nel 2009, insieme ad altri colleghi attori e autori fonda la Compagnia Òyes che ha come tratto distintivo quello di riportare nei teatri la drammaturgia classica riletta in chiave “contemporanea”. Il gruppo rivisita opere del passato in chiave (post) moderna, oppure mette in scena testi completamente nuovi.

Oltre a essere attore di teatro e autore (finalista al Premio Riccione Tondelli nel 2011), ha recitato anche in diversi spot pubblicitari (di recente nel commercial per Mv Line con la voce di Maccio Capatonda). Nel 2013 è stato protagonista del film 9 onde di Simone Saibene, finalista ai Mestre Mateo (il David di Donatello galiziano, ndr). Oggi Merlini si racconta agli studenti del primo anno del Master di Giornalismo IULM. Ripercorre la vita artistica tra esperienze e aneddoti di vita e arte.

Dario Merlini insieme ai suoi colleghi della compagnia Compagnia Òyes
Quali sono le migliori lezioni di teatro che hai ricevuto?

Un istante decisivo è stato quando, in Accademia, ho lavorato con l’attore Peter Clough. Aveva un approccio rigoroso, ma al contempo “leggero”, nell’analizzare il testo e i rapporti tra i personaggi. Cercava sempre di mettere l’interprete nelle condizioni migliori per lavorare, analizzando a fondo il copione, i ruoli e le sfumature. Clough pensa che un buon attore debba essere sensibile all’energia esterna e lasciarsi “contaminare” da quell’energia…

Com’è avvenuto il tuo passaggio dall’accademia alla carriera da attore?

Dopo il diploma in Accademia ho ricevuto molte proposte e lavorato intensamente per un anno. Poi è arrivato un periodo di “vuoto” che ha alimentato la mia ansia. Solo con l’esperienza ho imparato a gestire l’ansia, a capire che il mestiere dell’attore è fatto di fasi alterne. I momenti di stop sono un’opportunità per sviluppare progetti o per riposare, non li sento più come dei fallimenti.

Lo spot di MV Live e la lettura degli audiolibri a cui ti sei dedicato sono parte del tuo percorso teatrale o semplici attività collaterali?

Diversificare è fondamentale per un attore, in particolare per un attore di teatro. Gli spot e gli audiolibri sono altre forme del mestiere senza le quali sarebbe difficile andare avanti. Inoltre, a me piace scrivere ed è un aspetto che mi ha salvato anche durante il Covid, quando non si potevano fare prove o registrare ho scritto molto, dato forma a progetti rimasti in sospeso, messo in pagina idee sparse.

Come affronti la scrittura?

La scrittura è un lavoro che costringe ad avere rigore mentale. L’aspetto più complesso è il passaggio dall’idea indefinita alla struttura finale. Come scrittore faccio un esercizio mentale per capire gli aspetti importanti di un testo, ma soprattutto cerco di aiutare gli attori scrivendo qualcosa che possa essere “facile” da recitare e tradurre in azioni. Il testo non deve essere vissuto come una costrizione o una punizione dagli attori in scena…

È più difficile scrivere un testo drammatico o comico?

Mi diverte di più scrivere testi comici, ma è anche più difficile perché devono far ridere e allo stesso tempo riflettere sulla società. Inoltre bisogna verificare le scene davanti a un pubblico per vedere se il testo funziona e se scatena il riso, ogni volta che un copione va in scena, continuo ad apportare modifiche e cambiamenti. Rispettare la qualità e l’efficacia del meccanismo comico è impegnativo e non si ha mai la sicurezza che la battuta funzioni. Magari fa ridere solo te, ma vedere poi il pubblico divertirsi è una soddisfazione impagabile.

L’attore e autore Dario Merlini
Come è cambiato il tuo approccio al teatro nel tempo?

Il settore richiede scelte precise. Dopo il diploma mi sono interessato anche al doppiaggio, ma poi ho scelto di concentrarmi sulla recitazione teatrale. Ogni attività richiede costanza, bisogna fare molto allenamento e imparare le competenze tecniche.

C’è stato un personaggio più difficile da interpretare?

Sicuramente quello del saggio di diploma, dedicato a Peter Mark Roget (medico, accademico e teologo naturale britannico dell’Ottocento, autore dell’enciclopedico Thesaurus, nda). Quando avevo letto il copione non mi piaceva per niente il personaggio. Il regista è riuscito a farmi cogliere tante sfumature alle quali non avevo pensato. Per prepararmi ho dovuto imparare tante cose sul contesto storico, sulla letteratura e anche a giocare a volano perché dovevamo giocare in una scena.

Quanto è utile reinterpretare i classici in chiave moderna?

L’obiettivo della compagnia Oyes è raggiungere i giovani e ci abbiamo provato con la riscrittura dei classici. A volte, il miglior modo per rappresentare un testo è “tradirlo”. Le opere più conosciute sono state messe in scena molte volte, quindi la domanda che ci poniamo è: “Cosa posso dire di nuovo?”.

Com’è nato il progetto sull’esperimento di Philip Zimbardo (lo psicologo comportamentale che realizzò il noto esperimento carcerario di Stanford, ndr)?

È stato il mio primo testo da autore e per la nostra compagnia è stato un progetto fondamentale. Grazie al lavoro svolto sono arrivato in finale al Premio Tondelli e ho vinto il Premio Giovanile a Udine. Inoltre ho un ricordo indimenticabile perché ho conosciuto di persona Zimbardo, che ha visto dal vivo lo spettacolo. Ci ha invitati nel teatro che gestiva in Sicilia, è arrivato con un jet privato con un suo socio e mi sembrava di essere in un film americano. Poi, finito lo spettacolo, ha staccato all’istante un assegno da quindicimila dollari perché gli era piaciuto particolarmente. È stata una spinta – anche economica – fondamentale per la compagnia e da lì abbiamo potuto avviare un fondo.

Ci racconti l’esperienza del film galiziano 9 onde?

Il film è nato dall’idea di un mio amico regista cinematografico, Simone Saibene, e io ho partecipato alla fase di ideazione della storia perché́ in quel periodo eravamo coinquilini a Milano. Simone si stava trasferendo in Galizia, voleva raccontare la storia di un personaggio che perdesse la memoria e che, invece di cercare di capire chi fosse, si aprisse totalmente a una nuova identità̀. Anzi, che assumesse varie identità, diverse anche in base a quello che la gente proiettava su di lui. Alla base c’era l’idea che l’identità̀ sia un po’ fluida. Un discorso che quando abbiamo girato il film non era ancora mainstream.

Il film lavora molto sul simbolico: l’acqua, gli oggetti, la valigia…

Non importa chi sei e dove sei nato, ti puoi reinventare costantemente se sei aperto agli incontri che fai. 9 onde è costellato di simboli di rinascita. Uno era l’acqua, che si riallacciava anche a un rito di fertilità delle donne galiziane. Ci sono poi gli Hórreo, ovvero i vecchi granai con simboli pagani sempre correlati alla fertilità̀. Gli oggetti in valigia, più̀ che dei simboli, erano indizi. Il protagonista trova alcune cose nella valigia e da quelle inizialmente cerca di ricostruire la propria identità̀, ma in realtà sono falsi indizi…

Com’è stato recitare un personaggio quasi muto?

Per me è stato difficile, perché́ dovevo esprimere tutto con gli occhi e pochissimo con le parole. Inoltre, quando parlavo nel film, parlavo in una lingua che non era la mia, il galiziano. È strano per un attore perché́ la parola è uno dei nostri strumenti principali, non avere il controllo su quello che dici è destabilizzante.

Perché in Italia il film non è molto conosciuto, mentre è piaciuto molto in Spagna?

È un film che in Spagna è stato molto visto al cinema, lo danno ancora tutti gli anni in televisione. Qui in Italia non l’ha visto nessuno, perché́ non è proprio stato distribuito, nonostante il regista e io fossimo italiani. Il film è stato anche finalista del premio galiziano “Mestre Mateo“. Io, però, non sono potuto andare alla cerimonia di premiazione, che è un po’ come se non fossi andato ai “David di Donatello” del cinema italiano (ride, ndr).

Per quale motivo non sei andato?

Nello stesso periodo ero in scena con uno spettacolo, in realtà un lavoro abbastanza piccolo che stava in scena solo dieci giorni. Senza di me, però, non avrebbero potuto farlo. Oggi mi pento di non essere andato alla cerimonia, perché era un evento importante e c’era tutto il cinema galiziano. In più̀ era un film di cui ero protagonista, quindi è stata una scelta veramente folle. Oggi direi ai miei colleghi: «Scusate, io non ci sono, ho la premiazione in Galizia!».

Fotografia di apertura a cura di Marcella Foccardi

 

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