Lunedì 1° aprile lo spettro di un coinvolgimento diretto dell’Iran nel conflitto tra Israele e Hamas è diventato più concreto. Un raid delle Israel Defense Forces ha raso al suolo l’ambasciata iraniana a Damasco, uccidendo il generale dei Pasdaran Mohammad Reza Zahedi. Eppure c’è stato un tempo in cui Iran e Israele erano legati da solidi rapporti di alleanza. Riavvolgendo il nastro della storia e andando alle origini dello Stato Ebraico si troveranno documenti attestanti una comunanza di intenti. Un connubio che si sviluppava tanto sul piano strategico-militare, quanto su quello culturale.
Alleanza da Guerra fredda
Nel 1950, a due anni dalla nascita di Israele, lo Scià di Persia Reza Pahlavi riconobbe la piena legittimità dello Stato ebraico. Il sigillo persiano venne non molto tempo dopo quello turco, nonostante le autorità iraniane non fossero d’accordo con il piano di Partizione della Palestina. E inaugurò una nuova fase nei rapporti tra i due Paesi.
Ma perché l’Iran si mostrò favorevole alla presenza dello Stato d’Israele nell’area? Per rispondere a questa domanda occorre riflettere sullo scenario politico di quegli anni. Da poco conclusasi la Seconda guerra mondiale, Stati Uniti e Russia si contendevano le zone d’influenza nel mondo. E l’Iran era una pedina decisiva nello scacchiere mediorientale: concedere Teheran ai sovietici equivaleva ad abbandonare ogni velleità nel quadrante del Golfo.
Fu in quest’ottica che nel 1953 Washington, con l’aiuto di Londra, sostenne Reza Pahlavi nel colpo di stato ai danni del primo ministro Mohammad Mossadeq, responsabile della nazionalizzazione dell’industria petrolifera. Lo Scià finì così per recuperare il controllo sui redditizi giacimenti petroliferi presenti nel sottosuolo iraniano, e gli Stati Uniti riuscirono a scongiurare una possibile penetrazione russa in Medio Oriente. La cosiddetta Operazione Ajax portata avanti dagli agenti segreti delle potenze occidentali rinsaldò le simpatie tra Iran e Stati Uniti. E contrassegnò la linea politica dello Scià fino alla sua deposizione, avvenuta nel 1979 con la Rivoluzione islamica.
In questo quadro, dunque, l’Iran – al pari dell’Arabia Saudita – cercava la sponsorizzazione americana per guadagnare credito nell’area. Per tale ragione, l’alleanza con Israele aggiunse un ulteriore tassello al sistema d’intese tra Washington e Teheran. Col tempo, oltre all’appartenenza a un medesimo fronte nella Guerra fredda tra Usa e Urss, Iran e Israele si supportarono nel contrasto a nemici comuni, le forze anti-israeliane e gli oppositori allo Scià che spesso operavano congiuntamente.
La dottrina della periferia
Anche Israele traeva dei vantaggi dall’alleanza con l’Iran. Il vincolo con Teheran, infatti, si imperniava sulla cosiddetta “dottrina della periferia”. Si trattava di una politica strategica ideata dalla mente di Reuven Shiloah, primo uomo alla guida del Mossad, e messa in atto dall’allora Primo Ministro David Ben-Gurion. Il piano prevedeva la realizzazione di relazioni diplomatiche con i Paesi non arabi della regione, oltre che con le minoranze etniche presenti nei diversi Stati.
Israele, in sostanza, sperava di poter giovare della vicinanza con i nemici dei propri nemici dell’area, vale a dire arabi e palestinesi. Che, in maniera dichiarata, miravano alla sua distruzione in quanto considerata da loro “entità usurpatrice del territorio e non degna di esistere”.
Nel delicato momento appena successivo alla sua fondazione, Israele si trovava così alla disperata ricerca di riconoscimento internazionale, nonché di sostegno nell’area. Un bisogno reso ancora più urgente dalla crescita della potenza militare del vicino Egitto, per eccellenza il paese anti-americano. Guidato dal presidente Gamal Abd al-Nasser, lo Stato nordafricano era infatti il principale baluardo sovietico nel quadrante, oltre che deciso sostenitore della causa palestinese. Date le premesse, la rivalità con Israele non tardò a deflagrare. Prima nel 1948 e poi nel 1956 lo Stato ebraico fu impegnato in due conflitti regionali per la sovranità del Sinai e del canale di Suez. In occasione del secondo scontro, fu provvidenziale il supporto armato di Francia e Inghilterra, che avevano interessi strategici e commerciali nell’area.
Dal doppio confronto con i rivali arabi, Israele uscì a testa alta. In qualche modo, fu in grado dimostrare agli osservatori internazionali che poteva essere un valido antagonista all’avanzata del panarabismo di Nasser in Medio Oriente. A tale successo concorse senza dubbio l’efficacia della “dottrina della periferia” che, in questa prima fase, si sviluppava in segreto con Ankara e Teheran.
Il progetto Fiore
Le relazioni tra Teheran e Tel Aviv divennero così radicate da sfociare in un progetto militare bilaterale per realizzare un missile in grado di trasportare testate nucleari. Il programma assunse il nome in codice “Fiore” e si inserì nei sei accordi “petrolio per armi” siglati nell’aprile del 1977 a Teheran tra lo Scià Pahlavi e l’allora ministro della difesa israeliano Shimon Peres.
La collaborazione era segreta e anche gli Stati Uniti ne erano all’oscuro. A portarla alla luce fu l’assedio all’ambasciata americana di Teheran del 1979, dopo il quale vennero pubblicati più di 50 volumi di documenti segreti.
Dalla pubblicazione delle fonti è emerso come Israele e Iran volessero tenere segreto lo sviluppo dell’arma e che addirittura testarono un prototipo nel deserto del Negev in presenza di un generale iraniano. Per i due Stati era una situazione win-win. Da un lato, lo Scià avrebbe trasformato Teheran in una formidabile potenza militare. Dall’altro, Israele avrebbe ottenuto grandi riserve di petrolio e una cooperazione strategica preziosa.
La dottrina Begin
Il progetto “Fiore”, come del resto la collaborazione tra i due Stati, terminò poco prima della Rivoluzione Islamica e della nascita del regime degli Ayatollah nel 1979, ma alla luce degli eventi di oggi è sorprendente.
La sicurezza israeliana si poggia infatti da tempo sulla cosiddetta Dottrina Begin, una regola di ferro secondo la quale lo Stato Ebraico si riserva il diritto di attaccare preventivamente le infrastrutture per lo sviluppo nucleare degli altri paesi mediorientali prima che possano dare vita a armi di distruzione di massa. Tradotto, Israele deve mantenere la superiorità militare nella regione, ne va della sua esistenza.
Il nome deriva dal primo ministro israeliano Menachem Begin, membro del Likud (lo stesso partito di Benjamin Netanyahu) in carica dal 1977 al 1983. Nel 1981 il leader mise in atto l’operazione Babilonia con la quale l’IDF distrusse il reattore nucleare di Osirak, in Iraq, costruito da Saddam Hussein. La motivazione che giustificò l’attacco preventivo fu proprio quella di evitare la realizzazione di un’arma nucleare in grado di perpetrare un nuovo Olocausto. Nel 2007, il premier Ehud Olmert riaffermò la dottrina, ordinando l’attacco a un reattore nucleare siriano. Oggi, invece, è Bibi Netanyahu a invocarla per giustificare un possibile attacco in territorio iraniano.
Gli ebrei persiani
Un altro fattore che contribuì alle ottime relazioni tra Iran e Israele è stata la comunità ebraica persiana. Dopo Tel Aviv, infatti, è proprio Teheran l’attore con il numero più alto di ebrei di tutto il Medioriente.
La storia degli ebrei persiani è antichissima e affonda le sue radici nella prima Diaspora dell’VIII secolo a.C., quando il sovrano assiro Sargon II deportò le tribù israelitiche in Persia dopo la conquista del regno di Israele. Si tratta di più di 2700 anni di storia, in cui si sono alternati momenti di splendore a violente persecuzioni.
Nell’epoca Sasanide (224-624 d.C.), durante il glorioso periodo dello Zoroastrismo, la comunità ebraica persiana era la più numerosa del mondo ed esistevano città popolate per la maggioranza da ebrei. Anche dopo la conquista islamica dell’Iran e al declino della religione zoroastriana nel 651 d.C., la comunità ebraica continuava a essere numerosissima e attiva nel tessuto culturale. Nasce in questo periodo la letteratura giudaico-persiana, scritta in alfabeto ebraico ma modellata sui classici della poesia iraniana.
Le cose iniziarono a cambiare nell’epoca safavide (1501-1722) e peggiorarono ulteriormente tra XVIII e XIX secolo quando gli ebrei di Persia subirono pesanti persecuzioni.
L’ultima età di grande sviluppo fu però proprio quella in concomitanza con la nascita dello Stato Ebraico durante il regno di Pahlavi (1941-1979). Lo Scià elaborò una serie di riforme per tutelare gli ebrei persiani, aprì scuole in cui si studiava ebraico e i membri della comunità furono liberi di avere successo in campo economico, accademico e scientifico. Negli anni 60 e 70 si stima che la comunità ebraica iraniana fosse la più ricca dell’intera Asia, fuori dai confini di Tel Aviv.
Dopo la rivoluzione del 1979 le cose cambiarono un’altra volta. È importante sottolineare però che gli Ayatollah non hanno mai messo in atto un piano persecutorio preciso né hanno mai manifestato la volontà di sradicare la comunità ebraica. A testimonianza di ciò, la Costituzione della Repubblica Islamica riconosce l’ebraismo come una minoranza libera di professare e l’Ayatollah Khomeini nel 1979 dichiarò che «gli ebrei sono differenti dai sionisti» inaugurando un filone condiviso anche da membri della stessa comunità.
Nonostante questo, la comunità ebraica è stata però vittima di esecuzioni e persecuzioni. Come quella dell’imprenditore Habib Elqanian, prima vittima ebraica del regime a causa del suo potere economico. Gli Ayatollah giustiziarono altri sette ebrei iraniani nel 1980 e due nel 1982 per accuse di spionaggio e corruzione. Fino ad arrivare alla fuga del rabbino capo Yedidia Shofet con l’invito a tutti gli altri ebrei di fare altrettanto nel 1980.
Oggi, in Iran, secondo alcune stime vivrebbero circa 30.000 ebrei mentre il censimento del 2011 ufficiale parla di circa 9.000 fedeli che popolano scuole e sinagoghe. La maggioranza si trova a Teheran e in altre grandi città come Isfahan e Shiraz ma anche in nuclei più piccoli come Hamedan dove si trova anche la tomba di Ester e Mordecai, sito di pellegrinaggio importante per la comunità ebraica iraniana.