Il 10 febbraio si celebra la Giornata del Ricordo, istituita nel 2004 in memoria degli eccidi delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Due eventi distinti, ma strettamente connessi. Da un lato, alcune stime parlano di 5.000 italiani uccisi (anche se i numeri sono oggetto di dibattito) e gettati nelle cavità carsiche dalla resistenza partigiana jugoslava del Maresciallo Tito. Dall’altro, un esodo che coinvolse tra i 250mila e i 300mila italiani, costretti a lasciare le terre passate alla Jugoslavia dopo il Trattato di Pace del 1947, firmato proprio il 10 febbraio.
L’Italia consegnò l’Istria, Fiume, Zara e alcune isole del Quarnaro e della Dalmazia alla Jugoslavia. Venne istituito il Territorio Libero di Trieste (TLT), concepito come entità autonoma sotto la supervisione delle Nazioni Unite.
In realtà, il TLT rimase diviso in due zone amministrate separatamente: la Zona A, comprendente la città di Trieste e alcuni comuni limitrofi, affidata al controllo militare di USA e Regno Unito e la Zona B, che includeva Capodistria, Pirano, Buie e Umago, fin da subito amministrata dalla Jugoslavia.
Per il passaggio di Trieste all’Italia, si dovette aspettare il Memorandum di Londra, del 1954, con cui l’amministrazione della Zona A passò definitivamente sotto il controllo di Roma. La delimitazione definitiva dei confini, però, arrivò circa 30 anni più tardi, nel 1975, con il Trattato di Osimo.
Cosa sono le foibe
Caratteristiche del territorio carsico, le foibe sono delle voragini verticali, talmente peculiari della regione giuliana e istriana da non avere un corrispondente in italiano. Il termine “foibe” è infatti in dialetto friulano. Nel corso della Seconda guerra mondiale, in particolare tra il 1943 e il 1945, in queste cavità furono gettate le vittime della violenza politica di quel periodo. La Giornata del Ricordo commemora queste vittime, in particolare gli italiani.
Nella fase più acuta del fenomeno storico, tra il ’43 e il ’45, l’eccidio delle foibe fu causato dai partigiani della Resistenza partigiana jugoslava, guidati dal maresciallo Tito. Una decina d’anni più tardi, Tito assumerà la presidenza della Repubblica socialista di Jugoslavia, di cui manterrà il controllo fino alla sua morte nel 1980.
Il conteggio delle vittime rimane argomento di dibattito. Secondo lo storico Raoul Pupo, «le ipotesi più attendibili parlano di circa 600-700 vittime per il 1943, quando a essere coinvolta fu soprattutto l’Istria, e di più di 10.000 arrestati – in massima parte, ma non esclusivamente, di nazionalità italiana -, alcune migliaia dei quali non fecero ritorno nel 1945, quando l’epicentro delle violenze fu costituito da Trieste, Gorizia e Fiume. Nel complesso, un ordine di grandezza tra le 4000 e le 5000 vittime sembra essere attendibile».
Violenza nazionalista o genocidio?
Fare memoria di eventi come l’eccidio e il conseguente esodo giuliano-dalmata significa necessariamente assumere una posizione interpretativa. In questo caso il grande tema è se delle foibe si possa parlare nei termini di un genocidio, se esista cioè una volontà genocidaria da parte degli jugoslavi nei confronti degli italiani.
Così come le posizioni negazioniste appaiono infondate, allo stesso modo la storiografia non è riuscita a dimostrare un preventivo disegno di pulizia etnica che possa giustificare l’ipotesi del genocidio. È ancora Raoul Pupo a osservare che «la repressione iugoslava del 1945 ebbe sicuramente finalità intimidatorie nei confronti dell’intera comunità italiana: esse però sembrano da collegare non tanto a un progetto di espulsione» (come sarebbe una pulizia etnica), «quanto alla volontà di far comprendere nel modo più drastico agli italiani che sarebbero potuti sopravvivere solo se si fossero adattati senza riserve al nuovo regime, accettandone tutte le conseguenze di ordine politico, nazionale e sociale».
L’esito delle foibe sarebbe dunque il prodotto di una politica nazionalista, nata in un contesto già viziato dalle violenze del periodo della liberazione dai fascisti, a cui tutti gli italiani potevano – ovviamente solo da un punto di vista esterno – essere ideologicamente associati. La comunione di nazionalismo e ideologia è ciò che ha poi spinto centinaia di migliaia italiani, in fuga dalle violenze, a rifugiarsi all’interno dei nuovi confini nazionali e ad avviare un faticoso processo di integrazione all’interno del nuovo istituto repubblicano nel Paese.
L’Esodo Giuliano-Dalmata
L’esodo non si realizzò in un’unica ondata migratoria. MA fu il risultato di un lungo processo di abbandono, tra il 1943 e il 1956.
La prima città a svuotarsi fu Zara. La migrazione iniziò nel 1941, con un’ondata di 10.000 italiani, per poi intensificarsi nel 1944, dopo l’ingresso dell’esercito jugoslavo. Nei primi Anni ’50, la città aveva perso il 70% della popolazione.
Nel maggio 1945, le truppe di Tito entrarono a Trieste, Pola e Fiume, instaurando regimi di epurazione politica. A Fiume, oltre 20.000 italiani partirono entro il gennaio 1946, mentre a Pola, nel 1946, il 90% dei residenti era intenzionata a scappare. Ad aggravare la situazione, furono incidenti come l’esplosione di Vergarolla del 18 agosto 1946, con 65 morti. Percepiti come azioni intimidatorie per accelerare la fuga degli italiani.
L’esodo raggiunse il culmine tra il 1947 e il 1951, dopo il Trattato di Pace, con la partenza di circa 130.000 persone dall’Istria e dal Goriziano. I centri urbani si svuotarono rapidamente, mentre nelle campagne il processo fu più graduale. L’ultimo grande flusso avvenne tra il 1953 e il 1956, con il definitivo abbandono della Zona B del Territorio Libero di Trieste, che portò alla partenza di altri 40.000 italiani.
In totale, le stime parlano di 250.000-300.000 esuli, costretti a lasciare case, beni e affetti sotto la pressione di un clima politico ostile. La Jugoslavia attuò, infatti, una politica di snazionalizzazione, con la chiusura delle scuole italiane, la slavizzazione dei cognomi e la repressione del dissenso. Molti italiani furono vittime di persecuzioni, arresti e confische.
Alla fine, il senso di insicurezza e la progressiva disgregazione della società locale resero la partenza una scelta obbligata per la maggior parte della comunità italiana, segnando per sempre la storia dell’Adriatico orientale.