«Mi è sempre piaciuto divertirmi, giocare, viaggiare. Adoravo correre. Sono sempre stato una persona solare. Poi tutto quanto si è bloccato». Otto anni fa un gravissimo incidente sul lavoro. E oggi Gabriele Salvitti, 48 anni, è costretto sulla sedia a rotelle per una paralisi incompleta alle gambe. «Come tutti, ero convinto che a me non potesse mai succedere».
Quando hai tutto sotto controllo
Il primo contatto con il mondo del lavoro inizia intorno ai vent’anni. Guida camioncini consegnando latte e yogurt per tutta Roma. Poi il primo matrimonio e il passaggio al carico-scarico bagagli in aeroporto. Qui arriva l’opportunità di una vita, anzi le opportunità. Conosce e sposa la seconda moglie, ha una seconda figlia e vince il concorso pubblico per diventare autista di mezzi pesanti per un’azienda comunale della capitale.
«Andava tutto bene», commenta Gabriele. Fino al 7 luglio 2015. Un piccolo litigio familiare lo spinge a chiedere di poter rimanere al lavoro più a lungo e coprire un turno di straordinari. Sale alla guida del suo camion e a metà del suo giro sente che c’è qualcosa che non va. È come se fosse troppo carico, quasi ingestibile. Uno squillo al capo, che gli consiglia di portare il mezzo in autorimessa per poterlo scaricare un po’ e ripartire. Come sempre. «Ero tranquillo», ammette. «Avevo l’avallo del mio superiore e l’avevo fatto tante altre volte».
È sera, si rimette in moto. In una strada a traffico intenso le ruote urtano contro delle radici che sbucano dall’asfalto. Il camion sbanda, Gabriele sa di poterlo controllare appoggiandolo al guard-rail. «I piccoli incidenti mancati che si vivono, al posto di farti capire che sei stato fortunato ti fanno sentire quasi invincibile. Come se ti potesse succedere di tutto, tanto sei padrone della situazione». Ma il mezzo è troppo pesante e la barriera metallica si apre come fosse di latta.
Tra lamiere e dolore
Il camion si solleva in aria e vola nella carreggiata opposta. Atterra e fa due giri e mezzo su sé stesso. «Mi hanno trovato a testa in giù, incastrato dentro questa cabina tra plastiche e lamiere», racconta. La gamba destra era incastrata, il dolore lancinante ed era forte il dubbio che non ci fosse più tutta. Invece riesce a divincolarsi e con suo grande sollievo Gabriele non nota nulla di strano.
«Mi è venuto anche un sorriso. Poi sono caduto a terra perché ero con i piedi verso l’alto, e il sorriso subito è scomparso. Mi sono reso conto che muovevo solo le braccia». La voce di Gabriele rallenta, come se dovesse rompersi da un momento all’altro. «Quando mi sono reso conto di essere paralizzato, ho sentito il dolore fisico più forte». Le orecchie fischiano, il dolore a testa e coccige è insopportabile. Non perde mai conoscenza. E forse è peggio: sente voci, aspetta per quella che sembra un’eternità i vigili del fuoco e l’ambulanza. Poi viene portato d’urgenza all’Ospedale Sant’Eugenio.
La fisioterapia e la condanna
Qui inizia «un calvario durato 2 o 3 mesi». Tre ospedali, quattro operazioni per sistemare la spina dorsale e il bacino in frantumi. Poi la fisioterapia al Santa Lucia: «Ho fatto per due anni sei ore di palestra e due di piscina al giorno. Ora riesco a salire da solo in macchina. È una cretinata probabilmente, ma per me è una soddisfazione immensa».
Neanche il tempo di uscire dalle strutture sanitarie, che viene investito da un nuovo incubo. La notte del 7 luglio il suo mezzo ha travolto altre quattro macchine. Due conducenti rimangono feriti, uno perde la vita. Stava tornando dalla festa di compleanno per i suoi sessant’anni. Gabriele ora la tragedia la tocca con mano, anche a causa dell’accusa di omicidio colposo. Le responsabilità erano condivise: tra il superiore che gli aveva comunicato di guidare comunque e la stessa azienda, perché sul camion mancavano dei dispositivi di sicurezza. Gabriele, però, patteggia e si prende la sua condanna.
«Era un’abitudine andare avanti in sovraccarico. Io sento forte la colpa, anche se spero di averla espiata. Conoscevo le leggi: avrei dovuto come minimo chiedere di essere scortato da una o più macchine fino all’autorimessa. Sapevo perfettamente la procedura». Si blocca, come se rivivesse trenta volte in un millisecondo quella scena. Poi riprende. «Mi è stata messa una pistola carica in mano, forse anche con il grilletto sensibile. Ma sono io che l’ho puntata. Perché sono io che mi sono sentito Superman».
La lezione dell’amaro in bocca
Poi l’incontro con l’Inail (Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) e con l’Anmil (Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro). Il triennio di studi per prendere il diploma socio-sanitario e per diventare testimone formatore sulla sicurezza. E tra pochi mesi sarà abilitato anche come formatore docenti. «Ho capito che ero stato molto fortunato a non essere morto. L’unica cosa che volevo fare era ridare indietro alla società e alla vita tutto ciò che lei mi aveva regalato».
Ora gira per tutta Italia, raccontando la sua storia da quella carrozzina che porta come monito per tutti. Un po’ come il 1° maggio: «Bisogna lasciare quel po’ di amaro in bocca. Bisogna smettere di pensare che possa accadere solo agli altri». Perché tutto cambia, tutto si ferma, tutto si cancella e si riparte da zero. Nuova vita, nuova famiglia, nuovi rapporti. E quelle strade lungo cui correvi ogni mattina diventano monti quasi insormontabili.
I dati dei primi due mesi del 2024 non sembrano segnare nessun cambio di rotta. Al contrario: un incidente al minuto, oltre due morti ogni giorno. Cifre che pretendono di essere prese e affrontate con serietà da chi sta nei palassi della politica. Per Gabriele, però, lo Stato c’entra fino a un certo punto. Una maggiore vicinanza alle aziende, degli incentivi affinché le piccole e medie imprese si mettano in regola. Così come la promulgazione di leggi sensate, che non debbano ogni volta attendere una catastrofe e diventare subito dopo obsolete. Tutte cose utili. Ma rimarrà sempre quel 15% di fattore umano: «Perché l’uomo più è sicuro, più cala l’attenzione».
Questione di mentalità e di cultura, che secondo Gabriele necessiterebbe di interventi educativi e di sensibilizzazione già a partire dall’età scolastica. Per trovarci, tra tre o quattro generazioni, in una situazione migliore. Poi torna su di sé: «Mi dà fastidio essere visto come un personaggio positivo. Di positivo vorrei che non passasse quasi mai nulla. Per questo non mi do a grandi comizi: sono solo lo scemo in carrozzina che va a raccontare quello che non ha più».