Il peso delle decisioni: il racconto di chi ha visto esplodere l’emergenza Covid a Codogno

La notte tra il 20 e il 21 febbraio 2020 è una data che resterà per sempre nella storia. Nel silenzio della notte, Codogno in provincia di Lodi, diventava il primo epicentro dell’emergenza sanitaria che da lì a poco avrebbe investito l’Italia intera. In pochi minuti, un piccolo paese della pianura padana è passato dall’anonimato al centro della cronaca mondiale.

Francesco Passerini, sindaco di Codogno, è stato tra i primi a venire a conoscenza del contagio di “paziente zero”. Il primo a dover prendere, in quasi totale solitudine, decisioni che avrebbero inciso sulla vita di migliaia di persone. Nessun protocollo, nessun precedente, nessuna certezza: solo l’intuito, la responsabilità e il dovere di un sindaco di paese di proteggere la propria comunità. Passerini racconta a 5 anni di distanza – e con lo sguardo lucido di chi ha vissuto tutto in prima lineaquei momenti sospesi tra paura, urgenza e incredulità. Il senso di isolamento istituzionale, la pressione emotiva di chi si ritrova a firmare ordinanze senza precedenti, ma anche la forza e l’orgoglio di un territorio che ha saputo reagire, unirsi e rinascere.

Tornando a quel giorno, che cosa ha provato quando ha saputo che a Codogno c’era il primo caso accertato di Covid-19?

Freddo. Una sensazione di freddo. Sono stati due-tre secondi di gelo totale in cui resti spaesato. Era poco dopo mezzanotte. Quella chiamata poteva essere tutto, tranne quello. Già pochi minuti dopo la conferma, si percepiva chiaramente che stava accadendo qualcosa di assolutamente straordinario. I grandi mezzi di comunicazione ancora non lo dicevano apertamente, ma era evidente che ci trovavamo davanti a una situazione senza precedenti.

Codogno, tra l’altro, è discretamente lontano da grandi flussi di traffico internazionale come porti o aeroporti. Non era certo Genova o Milano, punti principali dove ci si sarebbe potuti aspettare una simile situazione. Proprio per questo, l’impatto è stato fortissimo. Quella notte è stata allucinante. La mia prima reazione, sinceramente, è stata: “Se è vero quello che succede in Cina, dobbiamo assolutamente limitare al massimo la circolazione delle persone.”

Che cosa ha fatto nelle prime ore?

Quella notte è iniziata una lunga maratona: tre notti in bianco. Ho chiamato tutti i contatti che avevo, chiunque potesse darmi delle informazioni. Ricordo, verso le 5:30, una chiamata con il responsabile della Croce Rossa di Codogno: “Francesco, non so cosa sta succedendo, ma stiamo portando via tantissima gente, non ci stiamo dietro.” Alle 7:30 del mattino ho convocato la mia Giunta e ho comunicato la volontà di promuovere ordinanze per limitare la circolazione delle persone. È durata 4 minuti: non c’era nulla da discutere. Tutti gli assessori hanno condiviso questa linea, con tutti i rischi del caso.
Non avevamo studi, dati, analisi: solo il nostro ruolo, e io, come Sindaco, ero responsabile della salute pubblica. Dovevo agire sulla base delle mie sensazioni. Era l’unico strumento per limitare la circolazione, perché da lì a poco sarebbero iniziate le attività quotidiane dei cittadini.

Quando è intervenuta la Regione?

Intorno alle 11:00 di quel venerdì, la Regione Lombardia ha preso in carico la situazione. Diverse figure istituzionali si sono mosse per capire il da farsi. Nel primo pomeriggio sono arrivati i tecnici del Ministero e il Ministro Speranza. Dovevamo capire cosa fosse davvero successo. Il Ministro mi chiese se io fossi sicuro della scelta presa. Sinceramente, ero convinto di aver fatto la cosa giusta. Poi la conferenza stampa a mezzanotte sempre con il Ministro Speranza, il Governatore della Lombardia Fontana e l’Assessore Foroni: furono definite le famose “zone rosse”. Durarono due giorni, fino al DPCM 1 del Presidente Conte dove furono identificati i primi dieci comuni coinvolti. E il resto lo sappiamo già.

Quanto ha influito tutto questo a livello emotivo e organizzativo?

Tantissimo. Ricordo il peso specifico della penna per firmare decisioni prese. Quel primo testo, quella prima ordinanza: nessun sindaco avrebbe voluto firmarla. Intanto cominciavano le campagne Milano non si ferma, Bergamo invita a visitare la città. Il nostro territorio veniva visto come malato, quasi condannato. Alcuni addirittura ci additavano come colpevoli. Ma la verità è che nessuno poteva immaginare una cosa del genere. Il paziente zero era un uomo di 38 anni, gravissimo. Nessuno poteva sapere. Poi i numeri salivano a ritmi incredibili: era chiaro che il virus circolava già da tempo nei nostri territori. Ma non solo: il tasso di contagio era alto anche in luoghi mai visitati da cittadini di Codogno o della zona rossa. Il virus era già ovunque prima del primo caso a Codogno…

Com’è stato il rapporto con le istituzioni?

Con la Regione, un rapporto continuo, fin dal primo momento. Il Ministero, dopo la prima visita con Speranza, si è messo in ascolto. L’unico contatto con il Presidente Conte fu una videocall, più “comunicativa” che concreta. Ricordo che si parlò della sua possibile visita a Lodi alle 4 di mattina, dopo Bergamo e Brescia quello che è passato alla storia come il “favore delle tenebre”. A Codogno non è mai venuto davvero. Provarono a organizzare un incontro notturno, ma dopo tutto quello che avevamo vissuto, non ci sembrava il caso. Diversa, invece, la posizione del Presidente Mattarella. C’è stato un affetto umano, oltre che istituzionale. Un momento che non dimenticheremo mai. Ci ha dato forza. Dentro quelle zone c’erano i cittadini. Nessun altro.

Come avete retto l’impatto concreto sul territorio?

Non avevamo nulla. Nessun supporto straordinario. Solo l’aiuto della Croce Rossa e un modello d’intervento mutuato da quello per l’Ebola in Africa. Lo abbiamo adattato alla nostra realtà, e ha funzionato. Resistere era fondamentale. Se si fossero ammalati medici e infermieri, sarebbe stato impossibile assistere la popolazione. Ma le difficoltà erano ovunque: famiglie con un solo genitore, minori da seguire, anziani soliIn Italia i protocolli non c’erano. Solo l’esperienza dell’Ebola fu considerata utile.
Poi fummo costretti a trovare un posto dove mettere i feretri. Usammo anche la Chiesa come camera mortuaria. Era già accaduto nel 1959, dopo un grave incidente ferroviario. Ironia della sorte: la chiesa era nata nel 1600, proprio durante una pandemia. Aveva due ingressi separati, perfetti per gestire i flussi rispettando il distanziamento. Sembrava costruita apposta.

E i rapporti con la stampa?

Chi non mi ha chiamato…? Ci hanno contattato da tutto il mondo: Cile, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Canada, Giappone, Cina. A Codogno è arrivata la stampa mondiale. La maggior parte sono stati corretti e rispettosi, con il desiderio di informare. Purtroppo, però, alcune situazioni no. Mattia – il paziente zero – ha vissuto un inferno: insultato, minacciato, con la sua privacy violata più volte. Non ha più voluto rilasciare interviste. Era visto come un untore. Eppure, non aveva nessuna colpa. Era una persona come tante, con una moglie incinta all’ottavo mese. Senza parlare delle leggende metropolitane girate sul suo conto.

Come è cambiata Codogno?

Nei momenti di difficoltà, penso si dia il meglio. Codogno oggi è diversa: più consapevole, più forte. Ha dimostrato al mondo cosa significa affrontare l’imprevisto e superarlo. Ci siamo rimboccati le maniche e rialzati. Poi abbiamo vissuto anni straordinari, pieni di eventi e sport, ma con il pensiero sempre a quei due anni durissimi. C’è un ritorno alla consapevolezza del territorio: stili di vita, architetture, servizi. Un orgoglio sano. Una comunità che può competere. Si è anche rafforzato quelsenso di comunità, di identità.

In quel momento si è riscoperto l’interessamento verso il prossimo: la solidarietà tra vicini, il gesto di chi si fa avanti per aiutare anche chi si conosce appena. Un’eredità positiva, nonostante tutto. Certo, ha inciso: sulla socialità, sui percorsi di vita, soprattutto dei più giovani. Anni di scuola persi non si recuperano facilmente. Ma speriamo che il terzo settore, la Protezione Civile, il confronto tra generazioni possano aiutare. I giovani sono pochi, ma coinvolgerli nel volontariato può essere un modo per restituire una importante – seppur piccola – parte di socialità.

E il tuo ruolo da Sindaco? Come si è evoluto?

Quel periodo è stato particolare. Il Sindaco era il primo tra i volontari. C’era bisogno di esserci, punto. Non c’erano social o riflettori che tenessero: si lavorava sul campo, con la gente. Poi il mondo è cambiato. Oggi i rapporti sono più digitali. Meno contatto diretto. Post, blog, videocall: si è perso il dialogo vero, il tempo morto tra un’attività e l’altra dove avveniva l’incontro sta venendo meno. L’uomo è un animale sociale, e questa socialità si è persa. È questa l’evoluzione che ho visto. La digitalizzazione pervade tutto, ma bisogna rinsaldare le basi che hanno fondato questo paese: famiglie, cittadini, lavoratori. Se non si dà loro forza, il rischio è un indebitamento che ci soffoca.

Se dovesse ricapitare un’altra emergenza simile, ci sono scelte che farebbe diversamente?

Secondo me mi portano a Lourdes… perché sarei io il problema! A parte le battute: speriamo che non accada mai più. Codogno sarebbe più preparata. Anche la Lombardia. Ma non sono sicuro che il sistema Paese lo sia. Allora accadde in una zona dove l’accesso alla cura è tra i più alti d’Italia. Ma se fosse successo in un luogo dove non ci sono terapie intensive, o con grandi distanze dagli ospedali? Il mondo è interconnesso: in dieci ore si arriva ovunque e quindi anche le epidemie sono destinate a tornare. Quello che è successo a Codogno può capitare ovunque. L’unico modo per evitare che succeda di nuovo è non dimenticare. Essere pronti. Perché la mia più grande paura è che si dimentichi. E allora, rischieremmo di rivivere tutto da capo.

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