Sono passati ormai dieci anni da quel primo focolaio, nell’area intorno a Gallipoli. Dieci anni in cui la Xylella ha fatto della Puglia un vero e proprio cimitero di ulivi. Trasportato da un insetto, la cosiddetta “sputacchina”, questo micidiale batterio è via via risalito nel Salento, arrivando a contagiare il 40% della superficie regionale, provocando il disseccamento rapido e la morte di milioni di piante. Una strage compiuta proprio nel cuore dell’olivicoltura italiana. Secondo stime Coldiretti, solo nel 2023 la produzione d’olio d’oliva è calata del 40% a livello regionale. Una catastrofe che ha lasciato migliaia di agricoltori senza fonti di guadagno.
A fare il punto della situazione è il fitopatologo Donato Boscia, dirigente dell’Istituto per la protezione sostenibile delle piante (Ipsp) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Alla guida dell’unità operativa di Bari, Boscia è in prima linea nello sviluppo di soluzioni per affrontare l’emergenza Xylella. Un lavoro per il quale è stato pure premiato, nel 2020, con una menzione al prestigioso Maddox Prize.
Dottor Boscia, ad oggi com’è la situazione?
La diffusione della Xylella fastidiosa è in significativo rallentamento. In dieci anni la superficie interessata dal batterio è cresciuta di cento volte, da circa 8 mila ettari a 8 mila chilometri quadrati. Ma la stragrande maggioranza di questa galoppata si è verificata nei primi cinque anni. Da allora solo pochi Comuni della parte adriatica della provincia di Bari si sono aggiunti all’area demarcata come infetta: in sostanza, Monopoli, Polignano a Mare, e più verso l’interno Castellana e Alberobello. Anche se si tratta di una zona di pregio, la cosiddetta “Piana dei monumentali”. Tra l’altro in quest’area è più lenta non solo l’avanzata del fronte, ma anche la diffusione di nuovi focolai, quando si registrano.
Che cosa intende?
Dieci anni fa, nel basso Salento, se comparivano i primi sintomi su una pianta nel giro di pochi mesi l’intero oliveto veniva interessato dal disseccamento. Adesso, invece, quando viene intercettato un nuovo focolaio, a distanza di un anno spuntano solo cinque, dieci o quindici piante infette. Inoltre, da un paio d’anni si registra una mitigazione dell’aggressività del batterio anche nella Puglia meridionale. Le piante più giovani (50-60 anni), che sono parzialmente sopravvissute all’ondata dell’infezione acuta, sembra che abbiano trovato una sorta di equilibrio.
A cosa è dovuta questa tendenza?
Ci sono diversi elementi. Anzitutto, in ogni epidemia la chiave risiede nella dinamica della popolazione dei vettori. Quello predominante per la Xylella, la sputacchina, ha una presenza significativamente più bassa nella parte centrale della Regione rispetto al basso Salento. Inoltre, nel centro della Puglia c’è una gestione dei terreni meno “minimalista”, ossia una maggiore propensione a mantenerli puliti dalle infestanti, con potature più frequenti. Poi ci sono le misure di contenimento, che oggi sono meglio organizzate perché c’è voluto del tempo per mettere in piedi questa macchina. E ancora, la Xylella è fortemente dipendente dalle condizioni climatiche.
Come influiscono?
La temperatura ottimale è di circa 28 °C. Più ci si allontana da questa cifra, meno favorevoli sono le condizioni per lo sviluppo e la diffusione del batterio. Dalle mappe dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) si vede come, soprattutto per la sottospecie diffusa in Puglia (la “pauca”), il rischio si riduce in maniera significativa se ci si sposta più a nord. Mi riferisco soprattutto alle temperature minime invernali: nella zona di Gallipoli gli inverni sono più miti di quelli baresi, dove non è insolito incappare in qualche gelata.
E nel Salento?
Anche qui si osserva un crollo della frazione di vettori virulenti. Come conseguenza della forte riduzione della vegetazione infetta rispetto a dieci anni fa, perché già sterminata dal batterio o estirpata dagli agricoltori. Inoltre, si è visto che l’impatto dell’infezione è direttamente proporzionale all’età della pianta, per cui gli ulivi più suscettibili, e in particolare la maggior parte di quelli plurisecolari, sono già stati irrimediabilmente compromessi.
Cosa succede a una pianta infetta?
Il batterio colonizza i vasi dello xylema, ossia i vasi conduttori della linfa grezza, attraverso i quali avviene il trasporto di acqua e sali minerali dalle radici alla chioma. Nelle piante particolarmente suscettibili la Xylella si moltiplica senza freni, si accumula all’interno dei vasi e in molti casi forma degli aggregati, una sorta di “tappo” che può interrompere il flusso di acqua. Il danno diretto è la morte per sete della parte della chioma alimentata da quei vasi.
Quante sono le piante infette?
Dei circa 60 milioni di ulivi stimati in Puglia, 25 milioni si trovano nella zona demarcata come infetta. Di questi, quelli effettivamente contagiati sono 21 milioni, secondo dati Coldiretti: io ritengo questa cifra un po’ sovrastimata, ma sicuramente siamo sopra i 10-15 milioni. Comunque si tratta di un’area molto piccola rispetto al territorio dell’Unione europea e all’intero comprensorio dell’olivicoltura del Mediterraneo. Questo vale anche se contiamo i focolai scoperti in altre parti dell’Ue e caratterizzati da sottospecie più blande che non attaccano l’ulivo. Anche mettendo insieme tutta la Xylella presente in Toscana, nel Lazio, in Corsica, nelle Baleari, nella provincia di Alicante, nella Costa Azzurra e così via, comunque si raggiunge a malapena lo 0.5% del territorio comunitario.
Ma in Puglia la diffusione è impressionante. Qual è stato l’impatto economico?
La Puglia è la Regione con la più alta concentrazione della produzione di olive e olio d’oliva in tutta Italia. Secondo stime rilasciate da Coldiretti, che non mi risulta siano mai state smentite, il danno ha superato i 2 miliardi di euro. Certo, si sta osservando una piccola ripresa della produzione a livello familiare, dovuta alla parziale ricrescita degli oliveti adulti ma non secolari, soprattutto per la Cellina di Nardò. Ma rispetto a prima non c’è paragone: un agricoltore mi raccontava che produceva 25 quintali d’olio l’anno, mentre ora, malgrado la ripresa, ha prodotto 3 quintali. Troppo poco in termini di olivicoltura competitiva.
E tutta questa storia da dove comincia?
È altamente probabile che la Xylella sia stata portata in Puglia da piante infette, anziché da vettori infetti. Piante provenienti da zone dove il batterio era già presente. Più nello specifico, una pianta ornamentale di caffè in arrivo dal Sudamerica, probabilmente dal Costa Rica. Questo paese tra l’altro viene considerato dagli evoluzionisti della Xylella come l’area del pianeta dove il batterio si sarebbe originato ed evoluto.
Perché proprio dal Costa Rica?
È l’unico posto dove si segnala lo stesso ceppo trovato in Puglia (sottospecie pauca genotipo ST53). Il paese, inoltre, è stato un grosso esportatore di piante ornamentali verso l’Unione europea, almeno fino al 2014. E le numerose partite di piante infette dalla Xylella intercettate alla frontiera provengono quasi sempre dal Costa Rica e sono quasi sempre lotti di caffè. Infine, nell’area dove è esplosa l’epidemia c’è un discreto distretto di vivaismo ornamentale.
Come si scoprì questo primo focolaio?
Le racconto un fatto personale. La sera del 9 agosto 2013 stavo cenando a casa dei miei suoceri, sotto la veranda, in una zona vicina al focolaio primario. Mio suocero mi chiese di accompagnarlo, l’indomani mattina, a vedere l’oliveto di famiglia, perché c’erano alcune piante che non gli piacevano. Andammo a vederle e poi nei giorni successivi coinvolsi altri colleghi: a seguito di questa segnalazione si giunse, un paio di mesi dopo, alla diagnosi della Xylella.
Da allora sono passati dieci anni. In questo lasso di tempo quali soluzioni sono state praticate?
Il grosso delle attività messe in campo dalle autorità fitosanitarie ha cercato di rallentare o prevenire l’ulteriore diffusione verso nord. Sono state adottate una serie di misure lungo il fronte dell’epidemia, ossia in una fascia larga almeno 10 chilometri: i 5 più estremi della zona infetta, quelli con gli ultimi avamposti del batterio, e i primi 5 della zona cuscinetto, che per definizione non è ancora interessata. Nella zona infetta si fa solo contenimento: le autorità campionano 200 mila piante l’anno e la prescrizione è di abbattere solo quelle infette. Nella fascia cuscinetto il regolamento comunitario impone invece di applicare le misure di eradicazione, che prevedono l’abbattimento non solo della pianta infetta, ma di tutte quelle potenzialmente ospiti presenti nel raggio di 50 metri. In dieci anni sono state abbattute per ragioni di quarantena circa 10-20 mila piante. Un piccolo sacrificio, se si considera che nella Regione, per altri motivi, ad esempio per costruire case e opere stradali, vengono abbattuti circa 22 mila alberi di ulivo ogni anno.
Malgrado proceda più lento, in alcuni punti il batterio è riuscito a sconfinare dalla zona cuscinetto?
Ci sono focolai nella zona cuscinetto e in alcuni casi anche oltre, come a Monopoli e a Polignano. Mi risulta che la Regione Puglia, per rendere più sostenibili le azioni di contenimento, abbia avviato con la Commissione europea una negoziazione per spostare più a nord i confini della fascia di contenimento.
Al di là degli abbattimenti cosa si è fatto?
Ci sono anche le misure obbligatorie di controllo dell’insetto vettore, a cavallo tra zona cuscinetto e parte più estrema della zona infetta: richiedono di arare i campi tra marzo e aprile ed effettuare due trattamenti con insetticidi tra maggio e giugno. Per quanto riguarda invece la diffusione a lunga distanza, che avviene con la movimentazione di piante infette, altra misura fondamentale è la limitazione degli spostamenti di materiale vivaistico dalle zone dell’epidemia. Questa è stata la prima misura messa sul tavolo dalla Commissione europea, dopo soli quattro mesi dalla comunicazione dell’ottobre 2013.
Quale può essere la soluzione definitiva?
Una cura per la Xylella ancora non è nota, malgrado si conosca come malattia da oltre un secolo e come batterio da una cinquantina d’anni, e malgrado tutti i danni che ha causato negli Stati Uniti. Questa conclusione è stata confermata in due occasioni dalla stessa Efsa. Ma la storia della patologia vegetale insegna che la soluzione a lungo termine va cercata nella ricerca e nello sviluppo di germoplasma resistente. Proprio come successo nel caso della fillossera, che aveva distrutto quasi tutta la viticoltura europea. Al momento le autorità fitosanitarie hanno autorizzato i reimpianti nelle aree infette con due varietà di ulivo: Leccino e Fs17. Varietà che hanno sì caratteri di resistenza, ma che non sono immuni e che si possono quindi infettare con sintomi più lievi. Quest’anno, finalmente, il ministero dell’Agricoltura ha finanziato tre progetti di grossi consorzi di ricerca, ciascuno da 3 milioni e mezzo di euro. Il nostro team del Cnr, anche utilizzando fondi europei, è partito in questa direzione già da alcuni anni.
In che misura sono stati praticati i reimpianti?
Un rappresentante di un’impresa che sta facendo buona parte dei lavori di estirpazione degli oliveti compromessi mi diceva che sono già oltre 3 milioni gli ulivi espiantati. Non sto parlando dell’estirpazione coatta ordinata dalle autorità per ragioni di quarantena, bensì degli abbattimenti volontari commissionati dagli agricoltori. Una parte di questi 3 milioni è già stata rimpiazzata con varietà resistenti. Anche grazie ai fondi del governo, stanziati con il famoso decreto dei 300 milioni della Xylella.
Si utilizza il germoplasma resistente anche nelle aree non ancora raggiunte dall’infezione?
Esiste una misura di prevenzione, incoraggiata e finanziata dalla Regione: l’utilizzo dei sovrainnesti negli ulivi monumentali. Si tratta di piante dal grande valore, sia paesaggistico sia affettivo, che si trovano in una zona più a nord, dove la diffusione del batterio è abbastanza lenta. Se, con gli innesti, si sostituisce la chioma con varietà resistenti, si può sperare di ricostruirla prima che arrivi il batterio: a quel punto, la pianta può comunque infettarsi, ma con una carica batterica molto più bassa. L’operazione è partita lentamente perché la procedura burocratica era abbastanza farraginosa. Adesso è stata snellita e infatti sta crescendo il numero di aziende che ricorrono ai sovrainnesti.
Quale può essere il rischio di queste operazioni?
Riteniamo abbastanza pericoloso effettuare un grosso intervento di rigenerazione dell’olivicoltura sulla base di due sole varietà. Se c’è una quasi monocoltura, quando arriva una nuova calamità fitosanitaria cui quella varietà risulta suscettibile siamo punto a capo. Si ricadrebbe insomma nella stessa situazione della Xylella: quando comparve, in Salento prevalevano due sole varietà – Ogliarola salentina e Cellina di Nardò – che si sono rivelate particolarmente suscettibili.
Quanto tempo ci vorrà a trovare nuove “cultivar” resistenti?
Almeno dieci anni, perché non si tratta di varietà già registrate. Quindi andrà valutata non solo la resistenza alla Xylella, ma tutti gli altri aspetti. Comunque, cercare una soluzione a lungo termine non significa trascurare la ricerca di protocolli e prodotti che possano mitigare gli effetti delle infezioni, consentendo la convivenza con il batterio.
Alla luce di questi fatti, come giudica la risposta delle autorità?
Se intendiamo le autorità comunitarie, queste hanno solo chiesto di applicare una legislazione preesistente che è simile, nei suoi principi di base, per i vari organismi da quarantena. In tali situazioni si richiede un intervento tempestivo e immediato per tentare l’eradicazione. In Italia, però, quando si è scoperta questa epidemia era già troppo tardi per tentare una vera e propria eradicazione. Tuttavia, si sarebbe potuto attuare in maniera più tempestiva un programma di contenimento.
Perché questa esitazione?
Era la prima volta che si aveva a che fare con ulivi contagiati dalla Xylella e non c’era un protocollo da applicare a fotocopia. Inoltre, la principale vittima non è una coltura che si tiene per vent’anni e poi si sostituisce, come un vigneto o un pescheto, ma una pianta che in molti casi ha una vita plurisecolare. Quindi si andava a intaccare il cuore del paesaggio, delle tradizioni, dei sentimenti. E alcune di queste piante erano ancora produttive. Insomma, l’applicazione di interventi severi risultava impopolare e creava comprensibilmente una serie di opposizioni.
Ad esempio?
Nel 2015 comparve un focolaio a Oria, in provincia di Brindisi, con 42 piante positive. Era un caso quasi unico di 40 chilometri di salto rispetto al fronte dell’epidemia. La sputacchina ha infatti bisogno di alimentarsi continuamente di linfa grezza: di solito resiste a uno spostamento in macchina di 2-3 chilometri, mentre con un viaggio più lungo probabilmente si debilita e perde di efficacia. Quello di Oria era un caso eccezionale e allo stesso tempo un’occasione forse unica e irripetibile per acquisire dei dati utili a verificare l’efficacia di tale protocollo. Ma ci fu una forte reazione popolare. Una mattina, per abbattere 7 dei 42 ulivi dovettero essere schierati 200 tra carabinieri, poliziotti e guardie forestali. E non tutti furono abbattuti perché un proprietario fece ricorso al Tar, ottenendo la sospensiva. Ma è stata una reazione dettata dall’emotività: non c’erano esperienze pregresse e molti pensavano o speravano, a torto, che la questione potesse risolversi come tanti altri problemi fitosanitari.
Quanto ha influito l’assenza di un adeguato risarcimento?
Questo è un punto fondamentale: per lungo tempo c’è stata incertezza e poca chiarezza sulle eventuali compensazioni economiche. Le faccio un esempio. Nel 2000 in Pennsylvania si osservò un focolaio di un virus che attacca il pesco e l’albicocco e che per il Nordamerica era da quarantena. Dopo soli venti giorni l’allora vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore firmò un decreto con cui stanziava 18 milioni di dollari per un programma di eradicazione. Quindi le persone sapevano che abbattendo le loro piante avrebbero incassato un certo quantitativo di denaro, e ciò consentì di raggiungere l’obiettivo nel giro di pochi anni. Invece in Italia non si è stati altrettanto tempestivi: prima si impone di abbattere e poi si valutano eventuali compensazioni. Ma non è mancato solo questo.
Cos’altro?
È mancata un’adeguata comunicazione istituzionale a sostegno delle misure delle autorità fitosanitarie. Ad esempio, durante la pandemia da Covid il ministro della Salute ci metteva la faccia tutti i giorni per difendere le misure di contenimento, mentre io non ricordo che nei primi anni sia successo altrettanto per l’epidemia di Xylella. Questo lasciò campo libero alla disinformazione, specie sui social, facendo crescere a dismisura l’opposizione alle misure di contenimento.