Da giovedì 30 novembre al 12 dicembre si terranno a Dubai i colloqui delle Nazioni Unite sul clima (COP28). L’obiettivo – ormai sempre quello – è trovare un rimedio rapido alla lentezza con cui i governi si stanno muovendo per contrastare l’emergenza. E l’assenza del presidente americano Joe Biden, notizia delle ultime ore, è un po’ una doccia gelata per chi sperava in ulteriori passi in avanti.
COP28 e i suoi obiettivi
Un suo sinonimo più esplicativo è ‘Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico’. Più comunemente è noto come COP28. L’acronimo deriva dall’inglese 28th meeting of the Conference of the Parties. Si tratta di un meeting annuale stabilmente presente dal 1995 nell’agenda di quasi tutti gli stati. Insomma, una riunione di diplomatici degli oltre 200 Paesi che nel 1992 hanno sottoscritto il United Nations Framework Convention on Climate Change. Promettendo di impegnarsi nella lotta «contro la pericolosa interferenza umana con il sistema climatico».
Il principale punto di discussione è uno: il mondo è o meno sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi prefissati nell’Accordo di Parigi del 2015? Si tratta del cosiddetto ‘bilancio globale’, e avviene ogni cinque anni. Finora la conclusione è la medesima: siamo troppo fuori strada. Il punto più spinoso dell’agenda, tuttavia, sono i negoziati sul fondo per risarcire i paesi poveri per ‘perdite e danni’: le devastazioni del riscaldamento globale. Istituito al meeting del 2021 a Sharm El-Sheikh, non è ancora stato trovato l’accordo su chi verserà e quanto.
Probabile anche uno scontro se l’accordo finale della COP28 richiederà l’eliminazione graduale dei combustibili fossili. I principali paesi produttori di petrolio preferiscono una formulazione che non citi l’eliminazione ma, al contrario, l’importanza della tecnologia di cattura del carbonio. Metodologia che molti vedono come falsa soluzione per tenere in vita le infrastrutture dei combustibili fossili.
Dubai e il clima, una scelta che fa storcere il naso
La scelta della sede è a rotazione tra cinque regioni: Africa, Asia Pacifica, Europa dell’Est, America Latina e Caraibi, Europa dell’Ovest. Il Paese ospitante occupa nel COP28 un ruolo chiave. Nei mesi di avvicinamento all’incontro, deve preparare il tavolo di discussione incontrando i principali leader del mondo e cercando di appianare i contrasti già sui blocchi di partenza. Ha poi il compito di raccogliere tutte le delegazioni e metterle d’accordo su una cosiddetta cover decision: un documento che evidenzi il consenso tra i vari Paesi.
In maggio 2021, Dubai è stata l’unica a candidarsi come host city. Una scelta alquanto singolare. Gli Emirati Arabi Uniti sono il quinto maggiore produttore di petrolio. Sultan Al Jaber, che presiederà le discussioni, è il CEO della Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc). Invano oltre 130 membri del Parlamento europeo hanno richiesto la sua rimozione. «Il mondo… vorrei che domani potesse funzionare con le energie rinnovabili. Ma la realtà è molto diversa». Le parole di Musabbeh Al Kaabi, nell’esecutivo della Adnoc nonché responsabile per gli Emirati delle strategie per diminuire le emissioni, non fanno sperare in bene.
Il prossimo anno sarebbe il turno dell’Est Europa. Ma la situazione è molto complessa. L’Ucraina è sotto attacco da ormai quasi due anni, Mosca si rifiuta di ospitare l’evento, Azerbaigian e Armenia – in guerra tra loro – si bloccano a vicenda le candidature. Insomma, prima ancora di partire con la 28esima edizione, la 29esima è già zoppa.
Xi e Biden, i grandi assenti
«Il mondo in cui viviamo sta collassando» è l’allarme lanciato da Papa Francesco, che ha confermato di voler partecipare ad alcuni colloqui. Oltre a lui saranno presenti anche re Carlo III, il presidente francese Macron, quello brasiliano Lula e il primo ministro britannico Sunak. Ma l’importanza del meeting sembra essere già stata snobbata dalle due principali potenze globali.
Il presidente cinese Xi Jinping salterà l’impegno, inviando il vice premier Ding Xuexiang e il negoziatore climatico Zie Zhenhua. Anche la sua controparte americana, Joe Biden, ha annunciato la sua assenza. Il motivo, secondo quanto traspare dalla Casa Bianca, è il suo impegno in altre crisi globali. Prima tra tutte quella in Medio Oriente, con le faticose trattative in corso per la liberazione degli ostaggi israeliani.
Certo, questo piccolo passo falso può scalfire l’immagine che Biden si era creato con quella che lui definisce «agenda green radicale». Da una parte il 2023 è stato l’anno in cui gli Usa hanno prodotto più greggio e – causa guerra in Ucraina – sono diventati il maggiore esportatore di gas. Dall’altra, ha firmato la principale legge in ambito climatico nella storia americana. L’Inflation Reduction Act consiste in un mega investimento da 370 miliardi di dollari in sussidi governativi per sviluppi tecnologici, da pannelli solari a auto elettriche. L’obiettivo è quello di ridurre le emissioni di gas serra. Come sempre, in questi ambiti, è difficile scappare dalla dinamica di luci e ombre.