È morto Henry Kissinger. Il più influente regista della politica statunitense dell’ultimo secolo è mancato all’età di 100 anni nella sua casa in Connecticut. Ebreo fuggito alla Shoah, consigliere di 12 presidenti americani, protagonista dell’apertura verso la Cina e della distensione con l’Unione Sovietica, mens et manus degli accordi di Camp David dopo lo Yom Kippur.
Tanto amato e rispettato, quanto odiato e disprezzato. Perché Superman – così era soprannominato – applica brutalmente la sua realpolitik. Come scrive Oriana Fallaci: «Questo cinquantenne con gli occhiali a stanghetta […] non sparava, non faceva a pugni, non saltava da automobili in corsa come James Bond, però consigliava le guerre, finiva le guerre, pretendeva di cambiare il nostro destino e magari lo cambiava».
Le campagne e i bombardamenti nel Sud-Est asiatico, l’appoggio silente alla dittatura cilena di Pinochet, il coinvolgimento negli scandali Nixon. Spregiudicato, come chi crede che la guerra sia necessaria e il pacifismo porti solo a sofferenza. Freddo, come chi sa che «quando si ha in mano il potere per lungo tempo, si finisce per considerarlo come qualcosa che ci spetta». Controverso, perché nonostante tutto, nel 1973 HAK viene insignito del premio Nobel per la Pace. Nel pieno del conflitto in Vietnam. Per dirla ancora con la Fallaci: «Povero Nobel. Povera pace»
Il ‘necrologio declassificato’: l’archivio top secret di Kissinger
Oltre 30mila pagine ‘top secret’ furono portate via da Kissinger come oggetti personali quando lasciò l’incarico di Segretario di Stato nel 1977. Memo, conversazioni telefoniche trascritte, memcons. Tra cui la celebre chiamata con cui venne avvertito della caduta di Saigon, in Vietnam, e quindi della vittoria dei Viet Cong. L’archivio statunitense non governativo National Security Archive (NSA) ne ha presa una parte, quella resa pubblica dopo una causa contro la National Archives and Records Administration (NARA). E ha compilato un piccolo dossier per documentare i lati più cupi dell’operato di Superman.
Secondo alcuni suoi assistenti, Kissinger teneva traccia di ogni parola detta perché aveva bisogno di ricordarsi quali bugie aveva detto a chi. «L’insistenza di Henry Kissinger nel registrare tutto, quello che comunicava ai presidenti, ai diplomatici, è un enorme dono per gli storici della diplomazia», ha commentato Tom Blanton, direttore del NSA. Un vero e proprio archivio di documenti che ritraggono uno dei più importanti giocatori nello scacchiere della politica estera. Senza tralasciare la faccia oscura della luna.
Le operazioni in Cambogia
Sono le 3.35 di pomeriggio di sabato 15 marzo 1969. Il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon ordina a Henry Kissinger di attuare immediatamente il piano Breakfast. Il Segretario di Stato a sua volta trasmette la notizia al Segretario della Difesa Melvin Laird. È la decisione di iniziare un bombardamento segreto in Cambogia, come estremo tentativo di demoralizzare i Viet Cong e i Khmer rossi.
Le conversazioni tra Nixon e Kissinger continuano anche un anno dopo. Il 9 dicembre 1970, durante una telefonata, il presidente americano ordina: «Voglio che tutto ciò che può volare vada lì dentro e li faccia a pezzi. Non c’è limite al chilometraggio e non c’è limite al budget».
Pochi minuti dopo, Kissinger telefona al generale Alexander Haig e riferisce quanto appreso. «Il nostro amico (Nixon, ndr) vuole una massiccia campagna di bombardamenti in Cambogia. Non vuole sentire scuse. È un ordine, è da fare. Tutto ciò che vola [deve colpire] tutto ciò che si muove». Entrambi gli interlocutori ridacchiano. Sanno perfettamente che è una richiesta impossibile. Allora il Segretario di Stato si prende la briga di indicare una specifica zona da colpire. Insomma, Kissinger è la mente che razionalizza e la mano che opera di Nixon. Per dirla con una battuta di quegli anni: «Pensa cosa succederebbe se morisse Kissinger. Richard Nixon diventerebbe presidente degli Stati Uniti…»
La creazione dell’instabilità in Cile
I documenti declassificati lasciano ben poco all’interpretazione. È chiaro il coinvolgimento di Kissinger nella destabilizzazione del governo democraticamente eletto di Salvador Allende. Fin dal 12 settembre 1970, il giorno successivo all’elezione di Allende, Kissinger lavora per minare la stabilità del governo cileno. Parlando al telefono con il Segretario di Stato William Rogers, HAK comunica che la volontà di Nixon è quella di «fare il massimo per evitare che Allende prenda il potere, tramite risorse cilene e mantenendo un profilo basso».
Poco gli interessano le questioni morali che i suoi collaboratori talvolta sollevano. Basti pensare a Viron Vicky, suo collaboratore dall’America Latina: «Ciò che stiamo proponendo è palesemente una violazione dei nostri principi e della nostra policy».
Il 15 settembre 1970 si incontra nell’Oval Office con Nixon e con il direttore della CIA John Mitchell. Ne esce un piccolo ‘elenco della spesa’, tra i cui ingredienti si legge «10% di possibilità, ma bisogna salvare il Cile. […] Non preoccuparsi dei rischi». E, più sotto: «make the economy scream», far urlare – di dolore – l’economia cilena.
Le conversazioni continuano, e Kissinger insiste: «Dobbiamo mantenere la pressione su ogni punto debole di Allende». In un messaggio della CIA inviato a Santiago del Cile dopo un incontro con Kissinger il 15 ottobre del ’70 si legge: «La nostra politica è rigida e ferma: che Allende venga rovesciato da un colpo di stato». Il presidente cileno è definito «una delle più grandi sfide mai affrontate in questo emisfero», in quanto «sostenitore del marxismo, anti-americano e legato a Unione Sovietica nonché Cuba». E in questa strategia (nome in codice FUBELT) sembra incluso anche l’assassinio del generale cileno René Schneider.
Il sostegno a Pinochet e l’Operazione Condor
L’11 settembre 1973, il generale Augusto Pinochet prende il potere in Cile con un colpo di stato. Cinque giorni dopo, in una telefonata, Nixon e Kissinger discutono del coinvolgimento degli Stati Uniti nell’evento.
Prima di tutto le lamentele contro i giornali: «Fossimo negli anni di Eisenhower, saremmo eroi». Poi la sicurezza di essere stati discreti nel loro operato: «Noi non abbiamo fatto nulla. Voglio dire, li abbiamo aiutati. ***** (nome eliminato dal documento, ndr) ha creato le migliori condizioni possibili».
Più tardi, l’8 giugno 1976, Kissinger incontra a Santiago lo stesso Pinochet. E lo descrive con queste parole: «Sei una vittima di tutti i gruppi di sinistra del mondo, il tuo peggior peccato è stato aver rovesciato un governo che sarebbe diventato comunista».
Altrettanto evidente è la mano di Kissinger in quella che viene chiamata Operazione Condor, una serie di azioni sostenute dalla CIA e atte a consolidare il potere di alcuni regimi nel Sud America. Primi tra tutti quello cileno di Pinochet, quello argentino di Videla e quello uruguaiano della junta militare. La strategia è spiegata in un memo mandatogli da Harry Shlaudeman, Assistente Segretario per gli Affari Iner-Americani. «Stiamo cercando di organizzare una serie di assassinii internazionali che potrebbero causare seri danni allo status e alla reputazione dei Paesi coinvolti».
Kissinger, da parte sua, decide che in merito a queste decisioni «non bisogna intraprendere ulteriori azioni». Insomma, totale via libera. Cinque giorni più tardi, a Washington viene fatta saltare una macchina con all’interno l’ex ambasciatore cileno Orlando Letelier. Si parla in totale di almeno 50mila oppositori politici uccisi, 30mila desaparecidos e 40mila incarcerati.
Il doppio gioco con Cuba
Da metà del 1974, Kissinger inizia a intessere relazioni con Cuba per andare verso una normalizzazione dei rapporti. Dietro le quinte, però, rimane evidente il disprezzo profondo verso Fidel Castro. E la paura, dopo gli aiuti militari mandati dal leader cubano in Angola, che potesse espandere le sue operazioni in altri stati africani.
«Credo che dovremo schiacciare Fidel Castro, ma non possiamo farlo prima delle elezioni», dice Kissinger nel febbraio 1976 al presidente Gerald Ford. Un mese dopo rincara la dose: «Dovremo umiliarli. Se si allargano in Namibia, sono favorevole a colpirli duramente». L’alternativa? Un durissimo embargo.
Oppure, preparate più in segreto, vere e proprie azioni militari in territorio cubano. Da raid aerei al posizionamento di mine nei porti. «Se usiamo la forza, dobbiamo avere successo. Non ci saranno mezze misure, non raggiungeremo nessun obiettivo usando il potere militare con moderazione».
Quando Kissinger voltò le spalle
Nell’ambito dell’Operazione Condor, il rispetto dei diritti umani passa in secondo piano. Spietatezza e disumanità per alcuni, realpolitik per altri. Il 7 ottobre 1976 Kissinger si incontra a New York con il ministro degli Esteri argentino César Guzzetti. « Il nostro atteggiamento di base è che vorremmo che tu avessi successo – sono le sue parole – Ho una visione antiquata secondo cui gli amici dovrebbero essere sostenuti. Quello che non si capisce negli Stati Uniti è che c’è una guerra civile. Si legge molto di violazione dei diritti umani, ma non di quale sia il contesto. Prima riesci [ad avere successo], meglio è».
Non a caso, il 19 ottobre dello stesso anno, l’ambasciatore americano Robert Hill scrive a Kissinger, denunciando una «completa assenza di preoccupazione da parte di Guzzetti sul tema dei diritti umani». Anzi, secondo Hill, Guzzetti si aspettava di essere duramente ripreso per la condotta della giunta militare argentina. Al contrario, «è tornato in uno stato di giubilo».
Questa indifferenza verso i crimini più efferati in nome di una linea strategica non si limita certo al Sud America. Oltre tre milioni di persone furono uccise nella primavera del 1971 nell’Est del Pakistan dal dittatore militare Agha Muhammad Yahya. Atti che lo stesso ambasciatore americano in quei territori, Archer Blood, definì un vero e proprio genocidio. Ma non Kissinger. Il motivo? Yahya ricopriva un ruolo cruciale nella sua politica di riavvicinamento alla Cina. «A tutti gli operativi, non pressate Yahya in questo momento», si legge scritto a mano al fondo di un memo. La calligrafia è quella di Nixon.
Allo stesso modo, Kissinger non alza un dito contro la dittatura indonesiana del Generale Suharto e la sua invasione nel 1975 dell’Est Timor. Un’operazione militare che è costata la vita ad almeno 100mila persone. «L’importante è che, qualunque cosa tu faccia, abbia successo velocemente» è il commento di Kissinger alla vigilia dell’attacco.
I nemici al di qua dell’uscio di casa
Il 12 maggio 1969 il direttore dell’FBI John Edgar Hoover invia un memorandum top secret al Procuratore Generale John Mitchell. Nel testo si legge chiaramente la richiesta di Henry Kissinger, ritenuta di massima importanza per il Paese. «Ha domandato sorveglianza telefonica sui seguenti individui, per determinare se esiste un serio problema di sicurezza: Daniel Ira Davidson; Morton H. Halperin; Colonello Robert Pursely e Helmut Sonnenfeldt».
Si tratta di quattro ufficiali statunitensi che collaborano, a diversi livelli, con il Dipartimento di Stato e con il Dipartimento della Difesa. Insomma, colleghi dello stesso Kissinger. La decisione arriva subito dopo la pubblicazione da parte del New York Times di un’investigazione sui bombardamenti in Cambogia, teoricamente secretati. Lo scopo è capire chi sia la talpa. Seguono numerosi report di Hoover a Nixon, in cui il direttore dell’FBI aggiorna il presidente sulla situazione e sui principali sospettati.
Tre anni dopo, con lo scoppio del Watergate e dello scandalo riguardo alle intercettazioni telefoniche, Nixon prova a difendersi sottolineando come quella fosse una strategia usata da tutti i capi di Stato prima di lui. Ma è tutto inutile.