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Una in Italia, una in Macedonia, una in Serbia, una in India, una in Honduras, tre in Marocco e ben 11 in Bangladesh. Sono i Paesi in cui sono state prodotte le 19 t-shirt 100% cotone che ho nel mio guardaroba. Da un po’ di anni, quando cerco delle magliette le prendo solo in cotone. Un po’ perché le trovo più fresche di quelle in poliestere, un po’ perché credo che se trattate bene durino di più – alcune di queste hanno oltre 10 anni – e un po’ perché mi sono convinta che il cotone fosse più sostenibile. Ma è davvero così?
Sorprendentemente, ciò che non appare sull’etichetta delle magliette di cotone è proprio l’ingrediente chiave necessario per realizzare questo tessuto: l’acqua. Per la produzione di una singola t-shirt ci vogliono 2.700 litri d’acqua, oltre a fertilizzanti e produzione di CO2. La t-shirt, anche se in cotone, porta con sé tutte le implicazioni ambientali e sociali di qualsiasi indumento. Il cotone potrebbe essere una risorsa naturale rinnovabile, ma il futuro della sua produzione è in bilico a causa di gestioni ambientali improprie, condizioni di lavoro discutibili e mercati molto instabili. Ogni anno, infatti, vengono riversate sui campi migliaia di tonnellate di sostanze chimiche: gli impatti negativi sull’ambiente includono anche la riduzione della fertilità dei suoli. Quando si parla di cotone, quindi, non si può prescindere dalle conseguenze sull’ambiente e la società in cui esso viene prodotto.
Il fatto che la maggior parte delle magliette che abbiamo in guardaroba sia stata fabbricata in Paesi con delle economie deboli è indice di quanto in questi luoghi sia permesso sfruttare il suolo e i lavoratori in tutti i passaggi della filiera. India e Cina, in particolare, rappresentano da soli circa il 50% della produzione mondiale di cotone, seguiti da Stati Uniti, Brasile e Pakistan. Ultimamente, però, sono state intraprese iniziative per una produzione più sostenibile. Il cosiddetto cotone organico, rispettoso delle persone e dell’ambiente, al momento costituisce meno del 2% della produzione mondiale, ma le cose potrebbero cambiare. La coltivazione di cotone biologico, infatti, sta guadagnando sempre più interesse. Per esempio, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente, Armani ha annunciato il “The Apulia Regenerative Cotton Project”, un progetto appunto per la coltivazione di cotone biologico in Puglia, mentre qualche tempo fa è stato lanciato il progetto di Ovs, che coltiva il proprio cotone alle porte di Palermo.
In ogni caso la coltivazione di cotone biologico difficilmente potrà offrire un’alternativa per rimpiazzare la produzione di t-shirt in poliestere. Si stima che il poliestere, da solo, rappresenti più della metà della produzione totale di indumenti al mondo. È un materiale artificiale, fabbricato a partire dai combustibili fossili, quindi attraverso un processo altamente inquinante.
Oltre agli impatti ambientali della produzione, l’industria della moda inquina anche con l’enorme quantità di rifiuti tessili che finiscono nei Paesi più poveri. Secondo la Banca Mondiale, entro il 2050 il totale dei rifiuti prodotti globalmente potrebbe ammontare a 3,4 miliardi di tonnellate all’anno. La maggior parte degli abiti accumulati nelle discariche è costituita da materiali sintetici, come appunto il poliestere, che richiedono fino a 200 anni per degradarsi. Delle soluzioni a questo problema esisterebbero, ma sono ancora poco praticate. Per esempio, alcune aziende stanno sperimentando il riutilizzo dei rifiuti tessili per l’isolamento termico delle abitazioni, per la produzione di nuovi abiti o per l’imbottitura di cuscini.
L’industria tessile è una delle attività produttive di maggiore impatto sul pianeta. Il cotone potrebbe essere una risorsa naturale rinnovabile e sostenibile, ma è controllato da pochi player, la Cina in primis che acquisisce la maggior parte della produzione mondiale e ne detta il prezzo. Ciò ha portato a un nuovo tipo di colonialismo perché difficilmente i Paesi produttori riescono a ottenere un prezzo che ripaghi la fatica e la qualità delle loro produzioni.
Il prezzo basso ci spinge a comprare molto più di quanto abbiamo realmente bisogno. Oggi si vende circa il 400% in più rispetto a vent’anni fa. Una delle cause di questo spreco sta proprio nella caduta dei costi di produzione. Il modo migliore per ridurre lo sfruttamento della mano d’opera nei Paesi in via sviluppo è dire no alla moda usa e getta, allungare il più possibile la vita dei nostri capi e soprattutto prestare attenzione al prezzo dei prodotti che si acquistano e alle certificazioni internazionali del commercio equo solidale, come per esempio Fairtrade che garantisce un controllo su tutta la filiera.
In conclusione, il cotone nelle nostre t-shirt ha ancora significativi impatti ambientali, sociali ed economici: dalla riduzione della fertilità dei suoli all’emergenza ambientale e sociale riconosciuta anche dalle Nazioni Unite. Il settore tessile sta sperimentando delle soluzioni sostenibili per affrontare queste sfide, come l’adozione di pratiche agricole che permettono la rigenerazione del terreno e la produzione di cotone biologico prodotto senza pesticidi. Solo quando il settore tessile diventerà più circolare potremo indossare le t-shirt, consapevoli di aver contribuito almeno in parte a un futuro più sostenibile per tutti. Fino ad allora, il miglior contributo che possiamo dare è ridurre al minimo gli sprechi.
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