Secondo una ricerca pubblicata a marzo 2023 sulla rivista scientifica internazionale MDPI, l’Etiopia e il Kenya avrebbero irrorato milioni di ettari di pascoli e aree coltivate con pesticidi chimici, uccidendo miliardi di api. I trattamenti – avvenuti tra il 2019 e il 2021 – sono stati eseguiti in risposta ai massicci sciami di locuste del deserto che hanno attraversato il Corno d’Africa.
Secondo lo studio, circa 76 miliardi di api da miele (apis mellifera) sono morte nella sola Etiopia durante il periodo preso in esame. I trattamenti chimici sono stati la causa principale dell’ecatombe.
I pesticidi, gli assassini silenti
La ricerca ha constatato che alcuni insetticidi – in particolare il fenitrothion, il clorpirifos e il malathion – sono stati utilizzati a una concentrazione quasi dieci volte maggiore a quella consentita. Il sovradosaggio avrebbe causato non solo la morte di miliardi delle api, insetti fondamentali per garantire la biodiversità e l’impollinazione di innumerevoli piante. Ma anche il decesso di migliaia di uccelli e mammiferi di piccole dimensioni.
Perché utilizzare i pesticidi? Secondo Robert Cheke, uno degli ecologisti che ha studiato gli sciami di locuste, utilizzare le alternative disponibili ai prodotti chimici, «comporta un ritardo tra gli spruzzi e la morte delle locuste, e a loro (i governi, ndr) piace vedere effetti immediati».
Sebbene il controllo chimico funzioni più rapidamente, può avere costi più elevati. Ma i costi nel lungo termine potrebbero essere a livello di ecosostenibilità. Elena Lazutkaite, una delle autrici della ricerca, ha dichiarato: «Se consideriamo l’impatto degli impollinatori selvatici e di altri animali non bersagliati dal trattamento, i veri costi dell’uso di insetticidi potrebbero aggirarsi intorno ai miliardi di dollari».
Ciò che è chiaro dai registri ufficiali dei governi coinvolti, è che insieme alle api è scomparso anche il miele. I dati dell’Etiopia mostrano che la produzione di miele è diminuita quasi dell’80% tra il 2017-18 e il 2021, traducendosi in perdite per 500 milioni di dollari. Un danno economico ingente, che non giustifica la maggiore velocità di efficacia dei pesticidi tradizionali.
Locuste e api
La FAO (Food & Agriculture Organization, l’organismo delle Nazioni Unite preposto all’agricoltura) definisce le locuste un “pericoloso parassita migratore”. In quantità ingenti, infatti, questi insetti possono rivelarsi estremamente distruttive. Una locusta del deserto adulta (Schistocerca gregaria) consuma tanto quanto il proprio peso corporeo in un solo giorno. Le infestazioni verificatesi dal 2019 al 2021 hanno reso più scarso il cibo per 20 milioni di persone nella regione.
D’altro canto la reazione dei governi del Corno d’Africa ha causato la morte di decine di miliardi di api, che a loro volta sono essenziali per garantire biodiversità e l’impollinazione di molte piante e fiori.
Pesticidi e prodotti biologici: l’alternativa somala
La FAO, che è responsabile di tenere sotto controllo le epidemie di locuste in quell’area, ha spedito a Kenya ed Etiopia più di 1 milione di litri di insetticidi “convenzionali”. Si tratta di un altro modo per definire i pesticidi chimici non biologici. L’Etiopia ha utilizzato soprattutto malathion e clorpirifos; Il Kenya ha schierato deltametrina e fenitrothion.
La Somalia, che in egual maniera ha affrontato massicci sciami di locuste, si è invece rivolta al bioinsetticida Metarhizium acridum e al teflubenzuron. Si tratta di regolatori della crescita degli insetti che interferiscono con lo sviluppo dei loro esoscheletri. In parole povere sono dei funghi che infettano selettivamente le locuste. Il tutto senza danneggiare altri insetti o animali inoffensivi – o addirittura benefici – per le attività umane.
Conseguenze sull’uomo
Da valutare anche l’impatto che questi trattamenti sovradosati di pesticidi non biologici hanno avuto per le popolazioni umane di Etiopia e Kenya.
«Queste sono sostanze chimiche che non metteremmo mai nel nostro suolo», ha detto Lazutkaite, citando poi l’esempio del clorpirifos. Un pesticida bandito da anni dall’Unione Europea, gradualmente eliminato per timore che causasse danni cerebrali nei bambini e nei nascituri.