Situata al centro tra Turchia, Iraq, Giordania, Israele e Libano, la Siria è uno dei Paesi più importanti del Medio Oriente per storia e cultura. La rivoluzione che ha generato la sua guerra civile è diventata simbolo della primavera araba, ma anche l’inizio di un conflitto che non vede ancora una fine.
Il punto di vista geopolitico
La primavere arabe
Tra il 2010 e il 2011 nell’intero Medio Oriente iniziò una fase di ribellione. Le cosiddette primavere arabe, a differenza delle precedenti manifestazioni, furono caratterizzate dal ruolo fondamentale dei social network nell’organizzazione di una serie di rivoluzioni. Per ostacolare le rivolte il governo siriano censurò alcune piattaforme online, come Facebook, Twitter e Youtube. Col tempo, però, i partecipanti divennero sempre più numerosi. La città agricola di Dar’a, nella parte meridionale del Paese, diventò il motore del movimento anti-regime. Gli scontri tra protestanti e polizia si diffusero anche altrove. Nonostante la primavera araba siriana fosse ancora all’inizio, le vittime erano già centinaia e gli attivisti arrestati migliaia.
Le parti in campo
In Siria le prime proteste avevano come obiettivo le dimissioni del presidente Bashar al-Assad e l’eliminazione dell’istituzione monopartitica Ba’th. Da una parte c’erano le milizie armate ribelli, dall’altra il fronte governativo, rappresentato dall’esercito siriano. La posizione geopolitica della Siria ha innescato lo schieramento di protagonisti internazionali. Assad godeva dell’appoggio di Russia, Cina e dei paesi sciiti tra cui Iran, Iraq e Afghanistan. I rivoluzionari godevano invece del sostegno della Turchia, dei paesi sunniti del Golfo (Arabia Saudita e Qatar) e di paesi occidentali come Regno Unito, Francia e Stati Uniti. Se all’inizio le manifestazioni erano di natura laica, la contrapposizione tra le minoranze islamiche di sciiti e sunniti divenne sempre più decisiva.
La guerra civile
Con la creazione, da parte di ufficiali disertori, dell’Esercito Siriano Libero (ESL), iniziarono veri e propri atti di guerriglia. Nel 2012 Assad tentò di risolvere la situazione con diverse concessioni, come la modifica della costituzione e la conseguente eliminazione dello status di partito unico del Ba’th. Con il peggioramento della crisi del governo, Russia e Iran iniziarono a inviare aiuti. La situazione della guerra civile nell’aprile 2013 vedeva l’avanzata costante dei ribelli, soprattutto nelle aree rurali, mentre Damasco cercava di mantenere il controllo delle principali città.
A cambiare gli equilibri fu l’appoggio dei militanti libanesi di Hezbollah, che regalò diverse vittorie all’esercito siriano. Altre entità islamiste, in particolare lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), stavano però guadagnando sempre più spazio tra i ribelli. L’ISIS interpretava quel conflitto come un passo verso la jihād (guerra santa) globale.
Le armi chimiche e l’intervento ONU
La radicalizzazione religiosa comportò un aumento delle tensioni tra le forze in campo. Le truppe di Assad arrivarono ad utilizzare armi chimiche a Ghouta, periferia di Damasco. L’atto venne condannato dall’ONU e dal mondo occidentale, come anche la dura repressione dell’esercito contro i manifestanti. In particolare, Unione Europea e Stati Uniti ipotizzarono un attacco al Paese.
Non si arrivò a tanto. Il 27 settembre 2013 venne votata all’unanimità la Risoluzione ONU 2118, che prevedeva la distruzione dell’arsenale chimico siriano. L’anno successivo iniziò la conferenza di pace Ginevra 2 organizzata dalle Nazioni Unite. A Montreux si incontrarono per la prima volta una delegazione del governo siriano e una della Coalizione Nazionale Siriana, in rappresentanza dell’opposizione. Purtroppo non fu raggiunto alcun accordo politico. Gli scontri si fecero sempre più frequenti fino al 2015 quando, sulla scia di diverse tregue tra le parti schierate, si ebbe un breve periodo di de-escalation in diverse zone del Paese. Gli anni passarono e le forze in campo non raggiunsero mai un definitivo cessate il fuoco.
Crisi umanitaria
Al dodicesimo anno di guerra, in Siria è in corso una vera e propria crisi umanitaria. Si contano centinaia di migliaia di morti e sfollati: 350.209 persone sono state uccise nel conflitto tra marzo 2011 e marzo 2021. Ad oggi i profughi sono quasi 7 milioni, di cui quasi uno su 13 erano bambini. La recessione economica, ulteriormente aggravata dalla pandemia, ha comportato un radicale aumento dell’insicurezza alimentare. Il terremoto di febbraio 2023 ha colpito un popolo che in larga parte già viveva nei campi profughi a causa della guerra. Ancora prima del sisma, il 97% delle persone viveva al di sotto della soglia di povertà.
Il punto di vista militare
Sulla guerra civile siriana si è detto e scritto moltissimo, in questi 12 anni. Eppure, ancora una volta, la parola che meglio racconta il conflitto resta una sola: caos. Tra fazioni, interventi esterni, e armi proibite, la Siria si è trasformata in una terra di nessuno.
Dalla Russia con amore
La frammentazione delle fazioni rende difficili azioni efficaci contro gli avversari. Il coordinamento manca, e non sono rari gli scontri tra alleati. Per risolvere il problema, le forze governative di Bashar Al-Assad hanno potuto contare sin da subito sull’aiuto russo.
I forti legami tra Mosca e Damasco risalgono alla guerra fredda, quando l’Unione Sovietica forniva quasi la totalità degli armamenti al regime del Bah’t. Nel 1971 il governo siriano concesse alla flotta sovietica una parte del porto di Tartus, trasformato in base navale. Tutt’ora attivo, lo scalo è l’unica installazione marina russa nel Mediterraneo, risultando di un’elevata importanza strategica. Nel settembre 2015 il Cremlino ha lanciato un’operazione militare in supporto alle forze lealiste siriane. Circa 4.500 i militari coinvolti, principalmente della Marina e dell’Aeronautica. Assad ha subito assegnato ai russi la base aerea di Khmeimim, fornendo un punto di appoggio ai velivoli impegnati in una vasta campagna di bombardamenti contro i gruppi ribelli e l’ISIS.
Il principale ruolo di Mosca nel conflitto è stato (ed è), oltre quello di fornire armi e munizioni a Damasco, il supporto dall’alto. Offensive strategiche contro roccaforti avversarie, attacchi di precisione, ricognizione e supporto alle operazioni di terra. Questi i principali profili di missione delle forze russe in Medio Oriente. Ma oltre all’assistenza agli alleati, la Russia aveva un altro obiettivo: impedire agli Stati Uniti di prendere il controllo della situazione.
Divisioni occidentali
Anche l’Occidente ha reclamato uno spazio nel conflitto. USA, Francia, Regno Unito e Turchia hanno subito appoggiato i ribelli siriani, minacciando di intervenire contro il regime di Assad se questi non avesse messo fine agli scontri. Mosca, però, è stata più efficiente. Con la propria opera, i russi hanno contribuito a riconsegnare il 60% del territorio a Damasco. Fornire un aiuto sostanziale alle milizie ribelli significherebbe, per americani e alleati, scontrarsi direttamente con i russi.
C’è però un altro elemento che ha inficiato l’opera occidentale in Siria: i curdi. Questa etnia, diffusa in una vasta area tra Turchia, Siria, Iraq e Iran è da anni al centro di dispute con i rispettivi governi. Da decenni sottoposti a emarginazione, limitazioni di diritti e libertà e, in certi casi, a genocidi, sono uno dei principali motivi che hanno inficiato l’operato occidentale nel conflitto. Stati Uniti, Francia e Regno Unito appoggiano l’YPG, la milizia curda che fa parte del fronte ribelle. La Turchia, schierata dalla stessa parte, non ha mai voluto fornire supporto all’unità, dedicando le proprie attenzioni ad altre formazioni anti-governative, spesso di matrice islamica e non particolarmente gradite alle altre nazioni occidentali.
L’assenza di un’azione unitaria ha reso inefficace il coinvolgimento dell’Occidente. Gli unici reali successi si sono registrati nella campagna di contrasto al terrorismo, e in particolare all’ISIS. Le campagne di bombardamento sono state pesanti, come anche le operazioni delle forze speciali. Ma anche la Russia, presente direttamente sul territorio con le forze siriane alleate e i mercenari del Gruppo Wagner, ha ottenuto eccellenti risultati.
Nebbia tossica
L’incertezza dell’appoggio occidentale e l’incapacità delle forze governative siriane di ottenere successi in autonomia hanno portato la popolazione ad essere vittima di alcune tra le armi meno umane attualmente esistenti.
Damasco, sin dagli anni ’70, disponeva del più grande arsenale chimico al mondo. Lo aveva sviluppato in risposta al programma nucleare israeliano: oltre 1.000 tonnellate di testate all’iprite, al gas sarin o nervino. Allo scoppio della guerra, pur rimanendo in larga parte nelle mani delle forze di Assad, non sono pochi i depositi catturati dai ribelli. L’utilizzo di queste armi ha causato centinaia di vittime. Il fatto peggiore si è verificato il 21 agosto 2013, nella regione di Ghuta: almeno 635 morti. Ancora oggi non è chiaro quale fazione abbia lanciato i missili responsabili del massacro. L’arsenale chimico è stato anche causa di prove di forza da parte di Stati Uniti e Israele. Il 7 aprile 2017, tre giorni dopo un attacco che causò 70 vittime, il presidente americano Trump ordinò il bombardamento della base da cui erano partiti gli aerei. Alcuni mesi più tardi, e poi ancora nel 2018, furono gli israeliani a colpire un laboratorio, legato al programma chimico siriano, a Masyaf.
Il gusto del proibito e del nuovo
Non solo gas. Durante il conflitto è stato fatto uso estensivo di altre due categorie di armi proibite. Le bombe a grappolo, progettate per disperdere in una vasta area un gran numero di ordigni più piccoli o di frammenti letali. Poi ci sono quelle termobariche, che esplodono rilasciando una grossa nube di carburante, destinata ad incendiarsi all’istante causando danni molto più gravi rispetto ad armi convenzionali.
Dal canto loro, i russi avrebbero approfittato della guerra in Siria per testare un gran numero di armamenti di nuova concezione. Dai missili ipersonici Kh-47 «Kinzhal» ai carri armati T-14 «Armata». Dai cacciabombardieri stealth Su-57 alle nuove fregate classe «Admiral Grigorovich». Tutti i nuovi progetti militari di Mosca hanno conosciuto il battesimo del fuoco nel teatro siriano. Molti di questi, forti dell’esperienza maturata in Medio Oriente, sono ora impiegati in Ucraina.
Gli scenari futuri
Della Siria si continua a parlare poco. Nell’ultimo anno, complice l’invasione russa dell’Ucraina, il paese mediorientale ha riguadagnato visibilità. Molte armi e unità militari di Mosca si sono fatte le ossa al fianco delle truppe siriane. Con il crescere delle tensioni nel Mediterraneo, poi, la base navale di Tartus è costantemente sotto osservazione.
A livello politico, il regime di Damasco sta tornando stabile. Attorno alla metà di marzo, il presidente Assad ha effettuato una serie di visite in vari paesi arabi, segno che l’isolamento internazionale seguito alla guerra civile sta man mano finendo. Solo l’Occidente mantiene rigidamente le sanzioni, mentre Israele continua a tenere alta la tensione con periodici attacchi aerei (l’ultimo nella notte tra 21 e 22 marzo).
Per la popolazione nulla è realmente cambiato. L’ondata rivoluzionaria del 2011 si è infranta contro il muro dell’autoritarismo. Il recente sisma del 6 febbraio ha messo in luce la rigidità del regime siriano: a molte ONG hanno ricevuto un divieto di ingresso nelle aree colpite del Paese, sottoposte in maggioranza a controllo curdo. Resta vano ogni tentativo di pace, in una terra che continua a patire da troppo tempo.