Nel 1947 il territorio noto come Palestina è stato spartito tra due stati: uno ebraico (Israele) e uno arabo. La decisione dell’ONU non era condivisa dagli stati arabi confinanti (Egitto, Transgiordania, Siria e Iraq), che invasero Israele. Alla prima Guerra arabo-israeliana del 1948 seguirono altri conflitti, come la Guerra dei Sei Giorni del 1967. La Palestina non ha mai accettato la presenza israeliana sul territorio. In particolare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) si è più volte detta contraria a compromessi. Sicuramente l’invasione israeliana del Libano nel 1982, così come il coinvolgimento militare dello Stato ebraico a Gaza e in Cisgiordania, hanno contribuito a incrinare ancora di più la situazione.
Il punto di vista geopolitico
La prima intifada
L’8 dicembre 1987 quattro profughi palestinesi del campo di Jabalya, a nord di Gaza, rimasero uccisi in un incidente stradale con un camion delle Forze di Difesa Israeliane (IDF). La loro morte provocò una rivolta contro gli israeliani in cui perse la vita un diciottenne, ucciso dai soldati di Tel Aviv. La prima intifada («rivolta» in italiano), dovuta alla grande crisi in cui versava il Paese, scatenò un effetto domino e un crescendo di violenze. L’OLP si schierò da subito al fianco degli intifadisti, guidati da consigli di semplici palestinesi che non si occupavano solo della resistenza armata, ma anche della creazione di strutture indipendenti (scuole, ospedali ecc…).
La rivolta si espanse anche in altri campi profughi fino a Gerusalemme, costringendo l’intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che condannò Israele per la violazione della Convenzione di Ginevra (accordo sui diritti delle vittime di guerra) a causa dell’alto numero dei morti palestinesi. Le sommosse andarono avanti tra scontri diretti e scioperi, nonostante le diverse risoluzioni ONU contro Tel Aviv.
I primi tentativi di pace arrivarono nel 1991 con la Conferenza di Madrid, col supporto di Stati Uniti e URSS. Seguirono gli Accordi di Oslo del 1993, che chiusero i negoziati tra il governo israeliano e l’OLP. Fu istituita l’Autorità Nazionale Palestinese, che avrebbe assicurato l’autogoverno di parte della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Questo almeno fino agli Accordi di Oslo 2, nel 1995, che ampliarono i poteri dell’organismo. Nonostante tutto, il conflitto non era risolto: rimanevano dubbi sui confini dei due Paesi e lo Stato di Palestina non era ancora stato riconosciuto.
La seconda intifada
Alla fine degli anni 2000 un’altra rivolta era alle porte. In un momento così difficile per Israele, la destra vinse le elezioni con Benjamin Netanyahu, grande oppositore della pace. La politica del neo primo ministro era di piena contrarietà alla presenza dei Palestinesi. Venne dunque negato loro uno Stato indipendente, il diritto al ritorno dei profughi e l’abbandono dei territori occupati.
Nel 2000 Ariel Sharon, capo del partito nazionalista israeliano Likud, si recò al Monte del Tempio, luogo sacro per ebraismo e Islam, nella città vecchia di Gerusalemme. Nello stesso luogo, la cosiddetta Spianata delle Moschee, si trovano infatti sia l’altura, santa per gli ebrei perché vi sorgeva il Tempio di Salomone, sia la Moschea della Roccia, dove secondo il Corano Maometto ascese al Paradiso. Sharon era accompagnato da centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa.
La rivendicazione del luogo sacro in nome di Israele, che scatenò una seconda intifada. C’erano però altre ragioni da considerare: lo stallo dopo gli Accordi di Oslo aveva portato ulteriori tensioni, con il fallimento del vertice di Camp David nello stesso anno.
Alla riunione di pace avevano partecipato:
- il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton
- il Primo Ministro israeliano Ehud Barak
- il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Yasser Arafat
Alla seconda intifada partecipò anche la popolazione araba israeliana ed aumenteranno a dismisura gli atti terroristici palestinesi. La mossa di Sharon fu politicamente vincente: il Likud vinse le successive elezioni, questo perché le persone vedevano nel suo partito una garanzia di sicurezza (necessaria dopo la seconda intifada), portandolo a tenere le redini del governo fino al 2006.
La situazione attuale
Gli episodi di violenza tra Israele e Palestina non si sono mai fermati. A soffrire più di tutti è la Cisgiordania, occupata militarmente dagli israeliani. I problemi non si limitano all’alto numero di uccisioni e attentati, ma anche alle conseguenze sulla quotidianità. Secondo l’organizzazione umanitaria Oxfam Italia il 90% dell’acqua pubblica di Gaza è contaminato o non potabile.
L’esercito israeliano sta cercando in tutti i modi di rendere impossibile la vita ai palestinesi attraverso blocchi stradali e frequenti incursioni nei campi profughi. Ancora oggi si legge ogni settimana di nuovi scontri. Un’escalation che non sembra vedere una fine. A giugno 2022, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato che «le cause principali» delle tensioni e dell’instabilità in Palestina sono dovute alll’occupazione israeliana dei territori palestinesi e la discriminazione contro la popolazione. Israele, da parte sua, continua a non rispettare le risoluzioni dell’ONU.
Il punto di vista militare
Con la fine dei conflitti tra Israele e Stati esteri, Tel Aviv poté dedicare tutta la propria attenzione a una nuova dottrina militare. Concentrandosi principalmente sul contrasto alle attività armate palestinesi, le IDF hanno saputo raggiungere un’efficienza davvero elevatissima negli ambiti del combattimento in area urbana e nella difesa anti-missile.
Gli undici comandamenti
A partire dal 1992 le forze armate israeliane si sono dotate di un codice di disciplina che inquadra le linee di condotta strategica e individuale. Al di là dei contenuti etici, quello che emerge dall’«IDF Spirit» sono gli undici punti chiave che da sempre indicano la via nei conflitti a Tel Aviv:
- Può esserci solo un esito negli scontri: la vittoria israeliana.
- La visione strategica è difensiva, senza ambizioni territoriali.
- Prima di ricorrere alle armi va tentata la via diplomatica.
- È fondamentale prevenire l’escalation.
- Se non si può evitare lo scontro, l’obiettivo sarà una guerra rapida.
- Concentrarsi sulla lotta al terrorismo, di qualunque natura esso sia.
- Le vittime, militari e civili, devono essere il minor numero possibile.
- Le IDF devono contare su forze permanenti ristrette e professionali, capaci di rispondere agli allarmi in tempi rapidi.
- La mobilitazione delle riserve deve essere veloce, anche senza preavviso.
- Una volta iniziato lo scontro tutti i comandi devono coordinarsi in maniera totale.
- La battaglia va trasferita dal proprio territorio a quello dell’avversario in tempi brevi.
Per una guerra rapida ci vogliono i numeri
La guerra dei sei giorni aveva già dimostrato la tendenza di Israele a colpire duro e velocemente. I più recenti scontri con i palestinesi mostrano come questo comandamento si declina nella dimensione interna. Parola chiave: numeri.
I palestinesi non hanno una struttura di comando centrale. Le fazioni armate sono tante, il coordinamento piuttosto scarso. Già questo è un punto di debolezza. I circa 16-18.000 combattenti per la Palestina devono cavarsela al meglio delle proprie possibilità, con armi di contrabbando di seconda o terza mano, senza veicoli o aerei e con un addestramento variegato, non sempre di buon livello.
Dal canto loro, gli israeliani schierano costantemente circa 170.000 uomini e donne. Un rapporto di 10 a 1 rispetto ai palestinesi. Tel Aviv, poi, dispone di quasi 470.000 riservisti, schierabili nel giro di una decina di giorni. Se non bastasse quello numerico, le IDF hanno anche un enorme vantaggio tecnico. Oltre a un’aviazione tra le più avanzate al mondo e a una marina piccola ma molto efficiente, Israele dispone di 1.650 carri armati e diverse migliaia di altri veicoli.
I palestinesi conoscono il loro territorio e attirano le IDF in vere e proprie trappole. Mine, razzi anticarro e mitragliatrici mettono a tacere le orde di veicoli e soldati israeliani. Per salvarsi, Tel Aviv è spesso costretta a ignorare i suoi stessi comandamenti. Vengono ordinati grandi bombardamenti per eliminare le sacche di resistenza, ma operazioni di questo genere causano spesso molte vittime civili. E così i palestinesi ottengono una vittoria: pur uscendo sconfitti, a livello mediatico avranno guadagnato l’attenzione delle opinioni pubbliche e degli organismi internazionali, che costringeranno Israele a ritirarsi senza aver sostanzialmente ottenuto nulla.
La tecnologia ci salverà
Nel corso dei decenni Tel Aviv ha compreso di non poter evitare del tutto i sanguinosi scontri con i palestinesi. La risposta è stata il miglioramento costante degli equipaggiamenti, che garantisce sempre minori margini di manovra agli avversari. L’industria bellica israeliana è oggi tra le più importanti al mondo. In particolare due prodotti hanno contribuito a diminuire le perdite e aumentare l’efficienza militare di Israele.
Il comandamento 4 è chiaro: l’escalation va evitata. Proprio per questo, dal 2011 è attivo un sistema missilistico chiamato «Iron Dome». Pur essendo tecnologicamente molto complesso, il suo scopo è semplicissimo. I palestinesi attaccano il territorio israeliano con armi a corto raggio, come razzi o proiettili d’artiglieria, difficili da abbattere. Il sistema israeliano è appositamente studiato per individuare e intercettare gli ordigni nemici in pochi secondi, distruggendoli in volo ed evitando danni a cose e persone. E, di conseguenza, eliminando la necessità di una risposta militare su larga scala.
In ambiente urbano i veicoli sono bersagli facili. Mine, strettoie e razzi possono trasformare i mezzi in bare per i rispettivi equipaggi. Così gli israeliani hanno innovato il mondo dei tank con i loro «Merkava». Oltre a varie dotazioni avanzate e un motore collocato in una posizione inusuale e più sicura, è un’altra caratteristica ad essere degna di nota: quelli israeliani sono gli unici carri al mondo capaci di trasportare soldati. Questa soluzione inedita consente ai tank di evacuare fanti bloccati sotto il fuoco nemico, con una protezione maggiore rispetto ad altri mezzi e senza interrompere i combattimenti.
Gli scenari futuri
Le violenze tra Israele e Palestina non accennano ad arrestarsi. Ogni settimana arrivano notizie di scontri armati. Non sono solo le formazioni militari ad agire. Anche la popolazione, in un’atmosfera esasperata dalle continue tensioni, scende in campo, come dimostrano i recenti fatti ad Hawara.
A soffrire maggiormente sono sempre i civili, costantemente a rischio di attacchi. Ad essere interessata è soprattutto la Cisgiordania, dove nell’ultimo anno sono morti oltre 200 palestinesi e 40 israeliani. E se l’amministrazione della Palestina cerca di mediare, come avvenuto nel recente vertice ad Aqaba (Giordania), Israele confida nella propria superiorità militare. Il tempo passa, ma la fine del conflitto sembra ancora lontana.