Un piccolo paese tra i monti dell’Europa sud-orientale alla ricerca dell’indipendenza, soffocato dai vicini serbi che ancora oggi non lo riconoscono come Stato. Dopo la morte dell’allora presidente della Jugoslavia Josip Broz Tito, nel Kosovo iniziò un periodo di forte instabilità tra i nazionalisti albanesi e le truppe jugoslave comuniste al potere. Il culmine fu un conflitto armato avvenuto alla fine del XX secolo, che portò morte e distruzione e in cui venne a mancare la coscienza diplomatica che avrebbe messo fine alla guerra.
Il punto di vista geopolitico
Tra nazionalisti kosovari e militanti serbi
Era il 1980 quando il leader comunista Tito morì a Lubiana, lasciando il Kosovo in uno stato di profonda crisi economica. I nazionalisti cercavano di liberarsi dal giogo della Jugoslavia, ma le loro proteste erano prontamente represse dal governo federale. La Serbia propose un nuovo emendamento costituzionale che prevedeva l’abolizione delle libertà istituzionali delle province autonome come il Kosovo. Nonostante le proteste degli albanesi kosovari, l’Assemblea locale accettò le misure speciali, poi revocate nel 1990. Con la nuova presidenza serba di Milošević, la situazione divenne sempre più tesa: le autorità serbe sciolsero la giunta kosovara, assumendo il pieno controllo della provincia e approvando nuovi emendamenti. Il controllo della Serbia sul territorio era totale, e anche i principali media passarono nelle loro mani.
Il Kosovo non rimase indifferente. La disciolta Assemblea promulgò una Costituzione della Repubblica del Kosovo, costringendo Milošević ad ordinare l’arresto dei deputati. Le elezioni multipartitiche nominarono il leader comunista presidente della Serbia, ma gli albanesi continuarono a cercare l’indipendenza, approvata da un referendum non ufficiale. Nacque così, nel 1992, la Repubblica di Kosova. Ibrahim Rugova fu nominato presidente del nuovo stato, ma la sua politica di resistenza pacifica non fu apprezzata dagli albanesi kosovari. Cresceva sempre di più il desiderio di una rivolta armata, fino all’intervento dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK). Oltre all’indipendenza, l’UÇK puntava alla creazione di una Grande Albania, uno stato che comprendesse le parti etnicamente a maggioranza albanese di Macedonia, Montenegro e Serbia meridionale. Iniziò la cosiddetta «anarchia albanese», un periodo del 1997 segnato da una forte criminalità e caos che portò alla caduta del presidente Sali Berisha.
La Risoluzione ONU 1199
Il potere militare dell’UÇK continua a rafforzarsi, fino ad essere considerato gruppo terroristico dal governo jugoslavo e, dal 1998, anche dal Dipartimento di Stato americano. Divennero sempre più frequenti gli scontri tra i ribelli e le forze jugoslave, causando la morte di decine di civili. Gli Stati Uniti decisero di entrare in gioco. Nel 1998 il presidente Bill Clinton dichiarò lo stato di emergenza nazionale a causa della minaccia di Jugoslavia e Serbia durante la guerra in Kosovo. Il 23 settembre dello stesso anno il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 1199.
Riassumendo i punti principali dell’atto, esso prevedeva il cessate il fuoco in Kosovo, invitava le autorità della Repubblica federale di Jugoslavia e ai capi albanesi della nazione a migliorare la situazione umanitaria (erano oltre 250.000 gli sfollati) e a intraprendere un dialogo con l’aiuto internazionale. Il testo specificava che, se tali condizioni non fossero state rispettate, «sarebbero state adottate ulteriori azioni per mantenere o ripristinare la pace e la stabilità nella regione». Gli Stati Uniti tentarono di agire da mediatori tra le due parti guidando diversi negoziati, ma le minacce si intensificarono fino all’intervento della NATO, a cui Milošević era contrario. Fu chiesto alla Jugoslavia di fermare le offensive contro l’UÇK e al gruppo terroristico di rinunciare all’indipendenza.
Il tentato cessate il fuoco non durò a lungo: nei primi mesi del 1999 aumentarono bombardamenti e omicidi, anche nelle aree urbane. Tra tutti, il più cruento fu il massacro di Račak, l’assassinio per mano serba di 45 contadini kosovari, fortemente condannato dall’occidente, che convinse la NATO ad intraprendere l’azione militare.
Dai colloqui di Rambouillet ai bombardamenti NATO
L’influenza internazionale fu fondamentale per porre fine al conflitto, in particolare i colloqui di Rambouillet iniziati il 6 febbraio 1999, con il Segretario Generale della NATO Javier Solana a fare da mediatore. Grande assente nella delegazione jugoslava fu lo stesso presidente Milošević, che invece era stato presente alla conferenza di Dayton del 1995 per porre fine alla guerra in Bosnia. Non mancarono le discussioni durante i negoziati: la prima fase fu produttiva e portò al consenso per l’autonomia del Kosovo, ma le condizioni furono troppo radicali per gli jugoslavi, che modificarono il testo dell’accordo. L’ONU avrebbe amministrato il Kosovo, con la presenza di truppe NATO sul territorio. Una proposta inaccettabile per il governo jugoslavo. I colloqui fallirono e si passò all’azione militare.
La televisione nazionale jugoslava avvertiva dell’imminente attacco, mentre il Segretario Generale della NATO annunciava l’avvio delle operazioni aeree. Un’enorme campagna di bombardamenti per cacciare le truppe della Jugoslavia e lasciare spazio alle forze dell’organizzazione internazionale. Senza l’appoggio della Russia, Milošević fu costretto ad accettare le condizioni di Rambouillet.
La fine della guerra
Il 12 giugno il presidente jugoslavo si dimise ed iniziarono finalmente le operazioni della Forza per il mantenimento della pace del Kosovo (KFOR) a guida NATO. La guerra, breve ma intensa, provocò la morte di circa 12.000 persone (di cui 2.500 a causa dei bombardamenti NATO) e lo sfollamento di oltre un milione di albanesi kosovari.
Quasi dieci anni dopo la conclusione del conflitto, alla fine della presidenza americana di Bush, i kosovari decisero di proclamare unilateralmente la Repubblica del Kosovo il 17 febbraio 2008. A differenza del primo tentativo di indipendenza del 1990, che fu riconosciuto solo dall’Albania, questa volta la mossa è stata accettata da 111 stati membri delle Nazioni Unite e da Taiwan. Altri paesi, però, si sono opposti, in particolare Cina e Russia, che ha condannato l’iniziativa. La Serbia ha contestato la secessione, considerandola illegale, ma nel 2008 la Corte Internazionale di Giustizia ha dato ragione al Kosovo. L’ONU ha però continuato ad esercitare il ruolo di mediatore, approvando una risoluzione Serbia-UE per l’avvio di un dialogo diplomatico tra Kosovo e Serbia. Il risultato si è concretizzato nell’accordo di Bruxelles del 2013 che ha abolito tutte le istituzioni serbe in Kosovo.
Il punto di vista militare
Analizzare il contesto militare kosovaro significa lavorare su diverse aree di crisi. In primis, il conflitto non si è mai davvero chiuso. In secondo luogo, il Kosovo non è uno stato universalmente riconosciuto, e la sua indipendenza è stata dichiarata unilateralmente. Per entrambi questi punti è difficile capire quali sono le capacità e le caratteristiche delle forze in campo. Senza contare, infine, l’elefante nella stanza: la missione NATO ancora attiva sul territorio.
Forze di sicurezza
All’indomani della dichiarazione d’indipendenza del 2008, il governo di Pristina istituì la Kosovo Security Force (KSF). Diventando uno stato a sé, infatti, la regione voleva assumere un maggiore controllo sui propri affari interni. Fino ad allora era esistita solo una piccola unità per la gestione delle emergenze, posta sotto totale controllo del comando NATO insieme alla polizia.
La KSF proseguiva quell’esperienza, operando in supporto alla popolazione civile. Gli interventi avvengono in caso di disastri naturali, di bonifica di campi minati e ordigni inesplosi, di ricerca, soccorso e di contrasto agli incendi, oltre che alcune mansioni di polizia. Gli uomini e le donne che la compongono rispecchiano la molteplicità di etnie che caratterizza il Kosovo, includendo anche serbi, bosniaci, turchi e croati.
A prima vista si tratterebbe di una sorta di organo di protezione civile. Nella pratica, però, il personale è stato addestrato dalle forze NATO fino a ottenere, nel 2013, la piena capacità operativa. Questo significa che, in caso di riaccensione delle ostilità con la Serbia, la forza sarebbe in grado di combattere come una milizia pienamente equipaggiata e preparata.
Verso la militarizzazione
Nel 2018 il parlamento kosovaro ha approvato una mozione per la trasformazione della KSF in una vera e propria forza armata entro dieci anni, con un personale attivo di almeno 3.000 uomini e donne, e altri 5.000 disponibili nella riserva.
La decisione di Pristina ha fatto ovviamente infuriare la Serbia. Se il Kosovo avesse a disposizione una propria forza armata indipendente dalle decisioni della NATO, il delicato equilibrio con Belgrado andrebbe in frantumi.
Allo stato attuale un confronto sarebbe a dir poco impari. Con oltre 22.500 militari in servizio, 275 carri armati e centinaia di veicoli blindati e pezzi di artiglieria, i serbi possono contare anche sull’aviazione, con 23 cacciabombardieri, missili e elicotteri. Al confronto la KSF sarebbe pressoché inerme, con i suoi pochi blindati. Sicuramente i kosovari avrebbero dalla loro un addestramento ed equipaggiamento migliori, ma questo probabilmente non sarebbe sufficiente.
I raid della NATO
Proprio per evitare che la situazione si scaldi eccessivamente, l’ONU continua a fare affidamento sulle truppe NATO presenti in Kosovo. La missione, universalmente nota come KFOR (Kosovo FORce), nacque come diretta prosecuzione dell’intervento occidentale del 1999.
Nel gennaio 1999, davanti alla prosecuzione del conflitto, il segretario generale della NATO Javier Solana annunciò l’intenzione dell’alleanza di intervenire con una missione di peacekeeping, preceduta se necessario da attacchi aerei, per tentare di risolvere la situazione.
In seguito al fallimento dei negoziati a Rambouillet, alle 20:00 (ora italiana) del 24 marzo 1999 partì la campagna di bombardamenti contro gli obiettivi jugoslavi. Sarebbe stata la prima di oltre 38.000 missioni, distribuite su un totale di dieci settimane. L’obiettivo della NATO era una campagna breve, che preparasse il terreno all’invio di forze di terra. Gli occidentali contavano sulla propria innegabile superiorità tecnologica e numerica, ma il Kosovo si dimostrò un osso duro.
In primis, i moderni missili aria-superficie delle aviazioni alleate avevano per lo più un sistema a guida laser. Il meteo prevalentemente nuvoloso rese difficile l’acquisizione dei bersagli. Gli jugoslavi, poi, disponevano di un buon numero di sistemi contraerei, che costringevano i piloti a fare molta attenzione. Per ovviare al problema, gli USA schierarono i loro modernissimi caccia stealth F-117. Ma anche questi non furono sufficienti: clamoroso fu il caso dell’«aereo invisibile» abbattuto dai serbi con il semplice ausilio di un cellulare e due ripetitori telefonici.
Solo l’11 giugno, pochi giorni dopo che il governo di Belgrado ebbe ratificato l’accordo di pace, grazie alla mediazione di Finlandia e Russia, la coalizione occidentale cessò i bombardamenti.
KFOR: 24 anni di peacekeeping
Il 12 giugno 1999 le prime truppe NATO (norvegesi e britanniche) entrarono in Kosovo. Da quel momento, l’alleanza occidentale non ha più lasciato il paese. Mentre il controllo della regione passava ufficialmente all’ONU e ai suoi inviati, la neonata KFOR assumeva il difficile compito di garantire la pace sul territorio, sovrintendendo tutte le operazioni necessarie. Dal disarmo delle milizie locali all’addestramento dei nuovi organi di sicurezza kosovari, passando per la bonifica di ordigni inesplosi e il sostegno umanitario alla popolazione civile, le truppe NATO sono riuscite a garantire stabilità nell’area.
Attualmente sono 3.762 gli uomini e le donne che costituiscono il contingente, provenendo da 27 diverse nazioni. I militari sono suddivisi su due comandi regionali, nell’est e nell’ovest del paese, oltre che su alcune altre unità per lo più con sede nella capitale Pristina.
La guida dell’intera operazione è ormai dal 2013 (escluso il periodo ottobre 2021-ottobre 2022) nelle mani degli italiani, che si distinguono anche qui fornendo il maggior numero di personale, gestendo la regione occidentale e schierando l’MSU (Multinational Specialized Unit), un reggimento di polizia militare e antisommossa interamente composto da Carabinieri.
Gli scenari futuri
Negli ultimi tempi, sono aumentati i tentativi diplomatici per risolvere la crisi serbo-kosovara. Il Kosovo ha proposto la creazione di una comunità delle cinque municipalità a maggioranza serba, nel nord della regione. L’associazione, però, dovrà rispettare le sei condizioni poste da Pristina: dovrà essere in linea con la Costituzione kosovara; non potrà essere monoetnica; dovranno essere smantellate le strutture illegali della Serbia nell’area; dovrà far parte dell’accordo finale tra le parti e dovrà essere realizzata dopo il pieno riconoscimento del Kosovo da parte di Belgrado. L’ultima richiesta rivolta al presidente serbo Vučić è il ritiro delle lettere inviate ai leader di Spagna, Grecia, Romania, Cipro e Slovacchia, nelle quali si chiedeva di non accettare la domanda kosovara per l’adesione all’Unione Europea.
Continua ad essere difficile per la Serbia il riconoscimento del Kosovo come uno stato indipendente e non come una provincia ribelle. Vučić ha dichiarato di sentirsi quasi costretto ad intraprendere queste trattative, poiché il rischio sarebbe quello di essere completamente isolati a livello internazionale. «Un traditore» per i nazionalisti serbi, che non accettano l’idea di un Kosovo indipendente, inserito nella NATO (se ne è iniziato a parlare un anno fa, con l’invasione russa dell’Ucraina) e in quella stessa Unione Europea a cui la Serbia vorrebbe da tempo accedere.
Che sia proprio l’adesione dei due stati all’UE la soluzione al conflitto? Davanti al fatto compiuto, Belgrado sarebbe costretta a riconoscere l’indipendenza di Pristina. Per ora le tensioni restano alte. Alla fine del 2022 le truppe serbe sono state mobilitate e schierate vicino al confine. La prima prova di pace sarà dunque la creazione della comunità dei comuni serbi nel nord del Kosovo?