«Il futuro non è nel cartaceo, non ho alcun dubbio». Questa la sentenza del direttore responsabile del Corriere della Sera, Luciano Fontana, invitato a un incontro con gli studenti al Collegio di Milano, istituzione di merito interuniversitario.
Il giornalismo nei prossimi dieci anni cambierà radicalmente, i quotidiani generalisti saranno probabilmente sostituiti da pubblicazioni specializzate, e il flusso di notizie si sposterà – alcuni direbbero che si è già spostato – sul web.
La carriera
Fontana ha parlato della sua storia professionale, citando la vecchia Olivetti 22, «la macchina per scrivere che un tempo accompagnava ogni giornalista». Con un sorriso ha ricordato di quando l’allora direttore Paolo Mieli l’avesse «relegato» alla direzione del settore digitale: «Perché io ero l’ultimo arrivato».
Un settore che oggi è la fortuna del Corriere della Sera, con mezzo milione di abbonati a cui si sommano i centomila lettori del quotidiano in versione digitale, e le oltre centosessantamila copie della versione cartacea. Sono lontani i tempi in cui il cartaceo contava oltre ottocentomila copie in edicola.
Perché pagare per leggere notizie?
Il pubblico è giovane e giovani sono le domande. Molte quelle sui costi e la difficoltà nel leggere il sito del Corriere. L’ad block – il meccanismo di blocco attivo sul sito per interrompere la lettura di articoli da parte dei non abbonati – è necessario se si vuole rimanere fedeli a un certo tipo di giornalismo. Riporta l’esempio del sito del New York Times: «Loro hanno pochissima pubblicità. Il nostro sito si è evoluto a partire dal loro modello: poca pubblicità e basarsi sul sostegno degli abbonati. Un’informazione che si regge sui lettori è garanzia d’indipendenza».
Mi tornano in mente le parole lette nel saggio di Indro Montanelli, “Soltanto un giornalista” (ed. Rizzoli 2002): «L’unico padrone del giornalista è il lettore».
Gli investimenti del Corriere per l’informazione
Uno studente azzarda il paragone col sito del Sole 24 Ore, facile da leggere e con scarsa pubblicità. Fontana sottolinea come sia sì di semplice lettura: «Ma ha anche un buco in bilancio da cento milioni. Quando ad esempio devo mandare un inviato in Ucraina – fa notare – ho molti costi da sostenere: c’è l’assicurazione di guerra, una scorta personale, le spese di viaggio… possibilmente vorrei mandare un giornalista bravo, e anche quello costa». Ciò permette di avere una cronaca professionale, e deve avere un prezzo.
Il costo di questi sforzi è risibile per il lettore, per il quale un abbonamento mensile al sito del Corriere è paragonabile – fa notare Fontana – a un pacchetto di sigarette al mese.
Responsabilità nell’era delle fake news
Cosa significhi essere il direttore “responsabile”, Fontana ce lo ricorda più volte: «Sono perseguibile, anche penalmente, per ogni notizia pubblicata dai miei giornalisti (che sono 485, ndr). L’unico modo per tutelarsi è avvalersi di fonti certificate». E lancia una provocazione: «Sarebbe giusto che anche i social come Twitter si assumessero delle responsabilità editoriali». Ma nessun giornale può e deve competere con Facebook o Google, che in quanto social «sono anche luoghi di messa in relazione, non solo di scambio d’informazioni».
Il pericolo è nella diffidenza che le nuove generazioni hanno verso le testate classiche. È quello dell’accuratezza del messaggio il campo di battaglia dei giornalisti. Essi devono diventare garanti della corretta informazione, a loro volta garantiti.
La politica italiana e il problema della leadership
Nel saggio del 2018 “Un paese senza leader” (ed. Longanesi), Fontana scrive della mancanza cronica di una leadership in Italia. Chiediamo se ritiene questa tesi sia attuale alle porte del 2023.
«Certo che lo è, se pensiamo a cinque anni fa c’erano i 5 Stelle, che oggi hanno una classe dirigente tutta diversa». Pensiamo anche a un Salvini che tocca il 35% alle europee del 2019 e oggi si ferma all’8%: «non è un caso, ma dipende dall’elettorato e da come le leadership si formano nel nostro paese». Secondo Fontana, per creare veri leader la politica deve ripartire dal passato, attraverso le associazioni di partito. «Meloni non è populista in senso classico, perché ha seguito questo tipo di percorso e si è costruita dal nulla».
Cosa dovrebbe dire un vero leader? «Un vero leader dovrebbe saper dire che non è facile risolvere tutto, che occorre un programma concreto e il sostegno dirigenziale. Che non può farcela solo, ma si tratta di una missione comune».
I grandi aneddoti
Il racconto del direttore arriva agli episodi più emozionanti della sua carriera: «La mia intervista a Putin, e quella più recente a Papa Francesco».
I nomi sono potenti, rimbombano nell’aula magna. L’interesse si riaccende anche tra i più distratti.
Il primo giornalista occidentale a ottenere nel 2015 un’intervista a Putin dopo l’invasione della Crimea, ricorda oggi quell’incontro al Cremlino: «Ci fece aspettare sette ore in questa enorme sala con al centro un elegante servizio da tè, e ogni tanto c’era agitazione per mantenere calda la teiera. La prima cosa che mi chiese fu “come sta il mio amico Berlusconi?” E mi colpì che prima di congedarsi non abbia voluto rileggere l’intervista».
Passa poi al colloquio con il Papa: «A un certo punto definì “chierichetto di Putin” il Patriarca della Chiesa Ortodossa. Gli dissi se era sicuro, che sarebbe scoppiato un casino. E col suo fare semplice che l’ha reso famoso, Papa Francesco mi ha risposto: “Vai, vai”».
di Ivan Torneo