La mafia si è evoluta, non è più quella del ’92. Ma Giovanni Falcone aveva già capito che per colpire il cuore del nemico, occorreva entrare al suo interno (legge del 15 marzo 1991, n. 82). Era così ieri ed è così oggi. Non si comprende, allora, perché non vengono incentivate le collaborazioni con la giustizia. Anzi sembra che ci sia la volontà di disincentivare proprio i mafiosi di spessore, quelli che potrebbero diventare collaboratori importanti, a parlare. Come? Con un programma di protezione che toglie qualsiasi diritto fondamentale dell’essere umano. Non solo “a chi parla”, ma anche ai suoi familiari (donne e bambini) che sono innocenti e non hanno commesso alcun reato.
Calano le collaborazioni con la giustizia
Secondo fonti ufficiali del 2018, in Italia c’erano 1.189 collaboratori di giustizia e 4.586 familiari che vivevano sotto il programma di protezione. Secondo le dichiarazioni del generale Paolo Aceto del febbraio 2021, i collaboratori di giustizia sono 1.007 (964 uomini e 43 donne) oltre ai loro familiari, in totale 3.776 persone. Questo dato risale a quasi un anno fa e possiamo riscontrare un significativo calo di circa 750 unità nel mondo dei protetti. I numeri fanno pensare che la lotta alle mafie si sia indebolita e che non ci sia stato un reale impegno da parte dello Stato a incentivare le denunce. Specialmente se consideriamo le importanti rilevanze giuridiche (maxi processo Rinascita – Scott) degli ultimi tre anni che hanno dimostrato il forte radicamento delle mafie, in particolare della ‘ndrangheta, in tutte le regioni di Italia.
Prima di accedere ai benefici di legge, chi decide di collaborare viene valutato in base alle sue dichiarazioni. Il collaboratore detenuto in carcere deve scontare almeno un quarto della sua pena per poter cominciare un percorso extra carcerario. Questo in teoria. In pratica il collaboratore inizia a usufruire di piccoli permessi premio, dopo il quarto di pena, cominciando un percorso che dura anni, prima di accedere ad altre forme di detenzione (domiciliare). La protezione dura fino al cessato pericolo indipendentemente dalla fase del suo processo. La protezione si focalizza principalmente sulla mimetizzazione (oscuramento dei dati, che però spesso non viene garantito) del collaboratore e dei suoi familiari. Il programma però non funziona dal principio in quanto vengono a mancare due valori cardine: il cambio definitivo delle generalità e l’inserimento socio-lavorativo. Specifichiamo che il documento di copertura non annulla l’identità del collaboratore e questo non garantisce la protezione. I collaboratori di giustizia non riescono a lavorare a causa di specifici impedimenti posti dal programma di protezione. Ma non solo, la mancanza di una documentazione idonea complica ulteriormente l’inserimento socio-lavorativo. Per questo motivo ricevono un sussidio di 970 euro a collaboratore e 230 euro a familiare, diversamente dai dati diffusi che si riferiscono al sussidio base previsto per i testimoni di giustizia. E anche in questo caso, è utile sottolineare che un cambio di generalità definitivo potrebbe risolvere il problema e far risparmiare molti soldi. Chi non è detenuto in carcere viene trasferito in località protette e posto sotto misure di vigilanza. Gli organi di polizia competenti hanno il compito di far rispettare le regole imposte dal programma e le variazioni tecniche di sicurezza (immediato trasferimento). Questo, anche a discapito della libertà personale. Se i collaboratori o i loro familiari non rispettano le regole del programma, vengono espulsi anche se sono ancora a tutti gli effetti in pericolo a causa della collaborazione. Questo è legittimo se i collaboratori o un loro familiare commettono un reato. In alcuni casi, però, la revoca della protezione viene attuata a causa di violazioni comportamentali come ad esempio il rifiuto di un trasferimento nonostante questo (il rifiuto) sia chiaramente motivato. La revoca, in questo caso, appare eccessiva.
Luigi Bonaventura, un ex ‘ndranghetista, apparteneva alla cosca dei Vrenna-Corigliano-Ciampà-Bonaventura operante nel territorio di Crotone. Nato in una famiglia ‘ndranghetista, aveva solo un modo per liberarsi dalla ‘ndrangheta. Grazie alla moglie, una piccola imprenditrice calabrese che non ha mai avuto legami con la criminalità organizzata, ha avuto il coraggio di collaborare con la giustizia per poter offrire ai suoi figli la libertà di scegliere una vita migliore. Chi doveva proteggere lui e la sua famiglia, però, ha trasformato la loro vita in un inferno. Da 15 anni combatte contro le mafie e collabora con svariate procure italiane. Ha contribuito a portare a segno diverse operazioni contro la ‘ndrangheta. Ha fatto arrestare o condannare oltre 500 persone e ancora oggi è considerato uno dei collaboratori più importanti che il nostro Paese ha a disposizione. Lui dal 2014 è senza nessun tipo di protezione e la sua famiglia, quella costruita con sua moglie e i familiari di lei, ha rischiato di ritrovarsi fuori dal programma per un presunto rifiuto di trasferimento. Al momento, però, il Tar ha dato ragione alla moglie di Bonaventura e ai suoi familiari e ha sospeso la revoca del programma. Il figlio maggiorenne, un eccellente studente, non ha il diritto di frequentare l’università e la sorella ancora minorenne non avrà l’opportunità di continuare gli studi. Ma non solo, perché in famiglia c’è anche chi ha bisogno di cure mediche urgenti e a causa di un programma di protezione inefficiente e ormai obsoleto i familiari non possono accedere a quelli che sono i servizi garantiti a tutti i cittadini. I diritti non vengono annullati ma le regole complicano la possibilità di usufruirne.
L’antimafia mafiosa
I pentiti di mafia sembrano far paura a una certa antimafia e chi giudica i collaboratori di giustizia, spesso è colluso con i mafiosi o disinformato. Un controsenso che trova una spiegazione in uno dei fatti di cronaca più eclatanti: il sistema creato da Antonello Montante. Un imprenditore, paladino dell’antimafia, che “poi in realtà aveva rapporti con i mafiosi e gestiva un enorme potere con intimidazioni. Quella mafia così moderna e così evoluta di cui nessuno parla – dice l’ex presidente della Commissione antimafia Luigi Gaetti – e continua – Montante gestiva i Servizi Segreti italiani, la Guardia di Finanza, i Carabinieri. Quando un suo concorrente lo ostacolava gli mandava la Guardia di Finanza che lo massacrava. Attraverso i giornalisti emergevano dossier falsi per diffamare le persone. Tutto questo è mafia? È mafia trasparente”.
“Un programma di protezione efficiente è l’espressione di uno Stato che vuole davvero contrastare le mafie”, a dirlo è il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra. Parlare del programma di protezione e di pentiti, però, sembra trovare ostacoli ovunque. Anche nelle redazioni giornalistiche.
La domanda è: perché?