Intervistata da Mo’ to’ spiego, il podcast del master in giornalismo dell’università IULM, Cipriana Dall’Orto, giornalista ed ex direttore di Donna Moderna, ha raccontato la sua esperienza alla guida di un periodico negli anni d’oro del giornalismo. “Fino a quel momento (il 2013, ultimo anno alla guida del periodico, ndr) il giornalismo era qualcosa di stupendo. Si lavorava bene, le aziende credevano nei giornali e i giornalisti avevano anche una buona reputazione tra l’opinione pubblica. Devo dire che sono uscita in un momento d’oro”. Nata a Genova, dopo aver frequentato la prima scuola sperimentale dell’Ordine dei giornalisti nella sua città natale, si trasferisce a Milano, dove inizia (e finisce) la sua carriera in Mondadori. “Ho cominciato prima collaborando, poi con qualche sostituzione di maternità finché non mi hanno assunto. Ho fatto tutta la mia carriera in Mondadori, passando da un giornale all’altro e da un ruolo all’altro. Sono stata redattore, caposervizio, inviato, caporedattore per Marie Claire e poi nel 1991, dopo la nascita del mio secondo figlio, ho accettato la proposta del giornale Starbene diventandone direttore”.
Qual è stato il più grande cambiamento che ha apportato a un giornale?
“Quando ho preso la guida di Starbene ho ereditato da un uomo un giornale molto tecnico, che trattava la medicina nelle sue sfumature più hard, parlando quindi anche di chirurgia. Io, forse perché sono donna, ho intercettato nell’aria che al pubblico femminile poteva interessare anche il benessere e la salute intesa nel senso più ampio, e così l’ho trasformato da giornale medico a giornale di benessere”.
E a Donna Moderna?
“Lì ho realizzato il cambiamento di cui vado più orgogliosa. Quando ho deciso di andare via da Starbene l’azienda mi ha trattenuta avanzando più proposte. Io ho scelto quella che più preferivo, ovvero diventare condirettore di Donna Moderna. Era il 1995 e alla direzione arrivava Patrizia Avoledo. La redazione era diventata una vera e propria fucina di idee e progetti. Ma la novità più grande, a mio avviso, è stata quella di portare in copertina non più le modelle ma le lettrici, che noi chiamavamo ‘donne vere’, non che le modelle non lo siano (ride, ndr). Lo abbiamo fatto per accontentare la richiesta di restyling da parte dell’azienda. Così abbiamo organizzato un laboratorio a cui hanno partecipato la redazione, il marketing e la pubblicità, invitando opinion leader di ogni settore, da manager aziendali a persone della cultura e dello spettacolo, chiedendo loro la visione della donna nel futuro. Partendo da un semplice fatto: chi fa una crema oggi e la mette sul mercato fra sei mesi, ha già un’idea di cosa vorrà quella donna nel futuro. Da questo laboratorio abbiamo capito che le donne erano in una fase in cui volevano sapere la verità. E lavorando su questo concetto abbiamo pensato di giocarlo fino in fondo, e non potendo permetterci le top model o le celebrities come faceva Vanity Fair, abbiamo iniziato a fare veri e propri casting tra le nostre lettrici”.
Come ha reagito la redazione alla vostra proposta?
“All’inizio l’azienda ci ha detto che eravamo matte, che mai si sarebbe potuto fare. Anche dei giornalisti di moda si sono ribellati. Ma noi abbiamo tenuto duro, abbiamo fatto alcuni servizi e quando il direttore dei periodici li ha visti ci ha dato ragione. E’ stato un cambiamento radicale e a ripensarci oggi, forse abbiamo anticipato i tempi”.
Come è stato vivere gli anni fondamentali della moda a Milano?
“Gli anni d’oro per la moda sono stati gli anni ’80 e ’90. Entrando in Donna Moderna c’eravamo divise i compiti. Patrizia Avoledo era ministro degli Interni e io degli Esteri, quindi tutto ciò che accadeva al di fuori della redazione me ne occupavo io. Ricordo ancora la prima sfilata, fu quella di Armani nella primavera del 1995. Ma ho capito cos’era la moda alla seconda sfilata ovvero l’ultima di Gianni Versace. Lui aveva in passerella le donne più belle, da Naomi Campbell a Claudia Schiffer, donne sexy che lui rendeva bellissime. Questa sfilata era apparentemente molto semplice perché faceva sfilare delle minigonne, che avevano però come piccoli tagli strategici qua e là, come tagli di Fontana. Più le guardavo e più non riuscivo a capire l’alchimia che rendeva così bella quella moda. E lì ho capito cos’era il genio. Perché il genio della moda non è quello che fa l’incredibile, ma che con segni semplici trasforma anche un piccolo capo in un oggetto del desiderio. E lì ho detto: ‘Questa è la moda'”.
Le redazioni dei femminili erano davvero come racconta “Il Diavolo veste Prada”?
“Nel mondo dei femminili la maggior parte dei direttori erano donne e devo dire che il rapporto tra loro e la redazione è sempre stato buono. Anche perché le donne, come mi ha insegnato la Senatrice Livia Turco, che abbiano figli o no, hanno sempre un pensiero materno che applicano in qualunque cosa loro facciano”.
E come è stato per lei essere una donna in un mondo prettamente maschile?
“Io avevo due difficoltà. La prima era che venivo da una classe sociale povera e mi trovavo spesso in contesti molto estranei da me, per esempio il mondo della moda, che ho trovato molto conformista. Poi come donna, non posso dire di essere stata discriminata. Anzi in Mondadori io posso solo dire di essere stata apprezzata, valorizzata e trattenuta quando appunto mi hanno cercato sul mercato. Però vivevo in un ambiente maschilista, che era maschilista a sua insaputa. Una volta, durante una convention a Montecarlo con il management della Mondadori, sono saliti sul palco tutti i manager della prima linea nei vari campi. Erano 38 uomini, lo ricordo perché li ho contati, non c’era nemmeno una donna. L’anno dopo, per un’analoga convention, in una riunione con tutti i direttori, proposi al direttore dei periodici di inserire le quote rosa. Mi guardò come una matta. Ma tra tutte le donne che c’erano in quella riunione, almeno una al livello di quei 38 uomini ci sarà pur stata. Lui si girò verso Carla Vanni, direttore storico di Grazia e di un’altra generazione rispetto alla mia, per chiedere conferma. E lei disse: ‘Sì, non ve ne rendete conto ma è un’azienda maschilista’. Con quella frase ha voluto dire che noi donne avremmo dovuto lavorare sempre di più per farci valere, e questo è indubbio. Io credo di aver lavorato molto di più dei direttori uomini e di aver guadagnato molto meno di loro”.
Qual è la più grande differenza tra il mondo dei quotidiani e quello dei periodici?
“Sono mondi molto diversi. Il quotidiano vive giorno per giorno con ritmi spaventosi, infatti l’ho sempre trovato poco compatibile con me e con il fatto che avessi due figli. Il periodico ha i ritmi serratissimi e una redazione piccola, però mi ha sempre affascinato il fatto di poter usare molto la creatività. Ogni notizia infatti, soprattutto in un settimanale, deve essere elaborata. Bisogna trovare un punto di vista e un modo diverso di raccontarla. Certo, è un lavoro che ha sempre fatto dannare la mia redazione (ride, ndr), tanto che gira voce che durante i colloqui di lavoro ai giornalisti di Donna Moderna dicevano: ‘Ah vieni da Donna Moderna? Allora hai fatto il Vietnam!’ Perché da noi si lavorava veramente tanto, però con buoni risultati e io mi sono divertita tantissimo”.
C’è un incontro che ricorda in modo particolare?
“Dal punto di vista culturale è stato con Leonardo Mondadori. Era considerato un po’ quello meno forte della famiglia, forse perché non tanto interessato al business, però era un uomo di visione. Con lui si poteva parlare di progetti in grande, fu il primo a portare tutta la collezione dell’Ermitage in Italia e anche la Monnalisa di Leonardo. Finché c’era lui, sentivo che quell’azienda aveva una visione”.
Visualizza questo post su Instagram