È morto a 76 anni Franco Battiato. Catanese, tra i più amati cantautori italiani, era un poeta in musica. «Pop, ma senza puntare al ribasso. Non immediatamente accessibile, ma non respingente. Ti incuriosiva e ti portava vicino» racconta il critico musicale Andrea Laffranchi
«Ti apriva mondi, ma senza sembrare inavvicinabile»
Sulle sue condizioni di salute da anni c’era riserbo. L’annuncio della morte è arrivato dalla famiglia nella mattina del 18 maggio 2021. Il funerale si terrà in forma privata.
Popolare elevazione
«Ho scoperto Battiato a 12 anni, quando è uscito La voce del padrone – ricorda Laffranchi – In quell’estate dell’81 era diventato enorme». Era il suo album di lancio, al crocevia tra il pop anni ’80 e il progressive rock del decennio precedente. E conteneva alcuni dei suoi pezzi più celebri, tra cui Cuccurucucù e Centro di gravità permanente. «Mio fratello aveva forse 24 anni. Io mi ricordo che andavamo in giro in macchina, con la sua fidanzata e io sul sedile posteriore, e ascoltavamo quel disco – racconta – Sentivo qualcosa di strano e diverso nella musica di Battiato, quelle parole e quel modo di scriverle che non era alto e minaccioso. Ti indicava la strada e la dovevi seguire».
La passione di Laffranchi si è poi approfondita crescendo, con il suo lavoro di giornalista. Quella prima impressione non è però mai stata tradita. «I riferimenti che lui fa sono elevati, ma non ti vogliono mettere in condizione di inferiorità. Al limite se non hai capito, non hai capito. Non ti fa sentire scemo, ma dall’altra parte riesce a raccontarteli». Il gusto per l’avanguardia e la grande sensibilità per arrangiamenti trascinanti e suggestioni esotiche ha influenzato molta della musica contemporanea. «Capita spessissimo di ascoltare una canzone e dire: “mi ricorda Battiato” – secondo il critico. Chiunque inizi a scrivere canzoni e non si accontenta della semplicità, segue Battiato sulla sua strada, non semplice, ma nemmeno inavvicinabile».
Le sue canzoni univano alla profondità, l’ironia sia sul piano testuale che su quello musicale. Dall’esordio di Fetus del 1972, fino ai celebri dischi pubblicati con la Emi: L’era del cinghiale Bianco (1979), Patriots (1980), La voce del padrone (1981) e L’arca di Noè (1982). Tra i brani più belli di quegli anni Prospettiva Nevski, La stagione dell’Amore, Radio Varsavia, I treni di Tozeur, presentata con Alice nell’84 all’Eurovision Song Contest. E infine Voglio vederti danzare. Fino ai successi degli anni ’90. Dalla trilogia di omaggi ad artisti internazionali e italiani, Fleurs, pubblicata a ridosso del nuovo millennio. A forse il brano più amato del cantautore catanese, La Cura.
Dietro l’autore
«Poi conoscendolo, a volte l’ho intervistato per lavoro, capivi lui aveva un distacco rispetto al sistema di funzionamento della musica che gli permetteva di fare quel tipo di cose – racconta Laffranchi – Era la capacità di andare oltre l’apparente» Anche le interviste non erano semplici interviste, ma riflessioni. «Tu gli facevi una domanda e ti sembrava lui non avesse risposto. Per esempio gli chiedevi: “che ore sono?” e lui: “oggi c’è il sole” e in quell’oggi c’è il sole era contenuta una risposta». Il critico ricorda anche la sua ironia: «Nelle sue divagazioni, nei piccoli incontri pranzi di lavoro, aveva un modo di porgere la battuta, ma poi ti guardava come a dire: “eh”. Era bellissimo. Ti veniva voglia di starlo ad ascoltare per ore, più che per il breve tempo dell’intervista».
«La canzone a cui sono legatissimo – confessa Laffranchi – è E ti vengo a cercare. Anche per il modo straordinario in cui viene usata nel film di Nanni Moretti, Palombella Rossa (1989). Ha una spiritualità pazzesca, ma è trasportata in modo straordinario in un film che parla di politica. Mi capita di riascoltarla spesso».