Oggi, 29 gennaio, la società anglo svedese AstraZeneca ottiene dall’EMA, l’agenzia europea del farmaco, l’autorizzazione per il vaccino. In questi giorni restano al centro del dibattito pubblico le tante questioni legate alla produzione e distribuzione dei vaccini anti-Covid. Tra queste, l’efficacia e la somministrazione di quello prodotto da Oxford nei confronti degli individui sopra i 65 anni e i ritardi accumulati dall’americana Pfizer nella consegna all’Unione Europa. O ancora, le azioni legali minacciate dal governo italiano e la disparità di trattamento riservata ai veri Paesi dalle casa farmaceutiche.
In una situazione così complessa, gli studenti del Master in giornalismo IULM hanno analizzato, attraverso dati e ricerche riferiti dai team leader Luca Carrello e Chiara Zennaro, gli aspetti più rilevanti e discussi, relativi alle responsabilità e alle problematiche di una delle più estese campagne vaccinali della storia. I due team hanno esaminato da un lato le ragioni delle grandi case farmaceutiche e dall’altro quelle dell’Unione Europea. Con lo scopo di provare a offrire un contributo utile al lettore per orientarsi in un ambito così sfaccettato.
Vaccini: i numeri che danno ragione a Big Pharma
La rapidità di Big Pharma
«Ci troviamo a sperimentare un vaccino in tempi record, ma accoglieremo lo stesso numero di dati e prove come facciamo di solito. Applicheremo criteri di efficacia, qualità e sicurezza anche per il coronavirus». Queste le parole di Marco Cavalleri, responsabile per le strategie dei vaccini dell’EMA, l’agenzia europea del farmaco, sulla creazione e l’efficacia del vaccino contro il Covid-19.
Le industrie farmaceutiche sono riuscite a ridurre le tempistiche di produzione senza compromettere né l’efficacia né la sicurezza del prodotto. La rapidità di produzione del vaccino anti-Covid-19 non ha precedenti. Fino a qualche anno fa, infatti, la fase di ricerca preliminare variava dai 3 ai 5 anni e prima di entrare in commercio potevano trascorrerne addirittura 10.
A favore della tesi secondo cui la velocità di produzione può giustificare qualche settimana di ritardo, è Gianluca Bramibilla che pone l’attenzione sulla capacità di adattamento delle aziende farmaceutiche: «Alcune di loro sono riuscite non solo a sviluppare un vaccino con una copertura superiore al 90%, ma anche a pensare ad una risposta per le nuove varianti del virus, quella inglese, sudafricana e brasiliana».
È il caso dell’americana Moderna che ha fatto partire nuovi test per poter garantire una copertura efficace e sicura anche contro le nuove varianti. E, come sottolinea Brambilla, l’azienda farmaceutica «sta studiando la possibilità di introdurre una terza dose di richiamo, per assicurare l’immunità».
La strategia sbagliata dell’Europa
Attualmente sono sei le aziende farmaceutiche con cui Bruxelles ha concluso gli accordi per il vaccino anti-Covid-19. Tra queste, le uniche dosi somministrabili sono quelle di Pfizer e Moderna, autorizzato ufficialmente dalla commissione europea il 6 gennaio 2021. E da oggi, 29 gennaio, anche quello di AstraZeneca.
Inizialmente l’Europa aveva opzionato un totale di 1miliardo e 300milioni di dosi. Alessandro Bergonzi spiega che «i ritardi nella consegna si possono imputare al fatto che in un primo momento erano stato autorizzato l’acquisto di solamente di 200milioni di dosi di Pfizer e 160milioni di Moderna». È significativo sottolineare anche che più di due terzi di quelle che l’Europa sta aspettando riguardano vaccini che non sono ancora stati approvati dall’EMA.
«Se l’UE avesse puntato su vaccini la cui ricerca è in fase avanzata anziché stanziare risorse su quelli la cui validità è tuttora incerta, magari adesso ne avremmo più tipologie e potremmo pensare a un piano di distribuzione più ragionato», commenta Alessandro.
Fornitura Ue- AstraZeneca: il problema dei 90 giorni di ritardo
L’Unione Europea si è mossa in ritardo nella stipulazione di contratti di fornitura con le grandi aziende farmaceutiche. Quello con AstraZeneca, ed esempio, è stato firmato con 90 giorni di ritardo.
Per questo motivo, il commissario per l’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, accusa la società britannico svedese di aver messo l’Italia e il resto d’Europa in secondo piano nella consegna del vaccino. Anche l’ex premier Giuseppe Conte ha annunciato azioni legali nei confronti di AstraZeneca.
L’amministratore delegato dell’azienda, Pascal Soriot, come riporta Priscilla Bruno riprendendo un’intervista realizzata su Repubblica il 26 gennaio «ha smentito le accuse, spiegando che la priorità acquisita dal Regno Unito è dovuta all’aver firmato un contratto con l’azienda 3 mesi prima dell’Europa».
Ad oggi la produzione del vaccino presenta delle problematiche legate alla sostanze basica che lo costituisce ed emerge soprattutto in relazione all’aumento della produzione di dosi. Di conseguenza, sottolinea Priscilla, «le forniture sono più puntuali nel Regno Unito, perché lì l’azienda ha avuto più tempo per progettare la catena di produzione e distribuzione».
Corsa alle luer-lock per estrarre 6 dosi anziché 5
L’8 gennaio l’EMA ha autorizzato ufficialmente l’estrazione di 6 dosi anziché 5 da ogni fiala del vaccino Pfizer-BionTech. Grazie a questo ricalcolo, spiega Nicola Bracci, «l’azienda ha fatto sapere che sarebbe stata in grado di consegnare 2,6miliardi di dosi anziché 1,3miliardi entro la fine del 2021».
In Italia, secondo un’inchiesta realizzata da Il Foglio, si discuteva di questa possibilità già da novembre, un mese prima del V-day europeo. Per rendere operativa l’estrazione di 6 dosi da ogni fiala, però, è necessario utilizzare delle siringhe di precisione, le luer-lock, in grado di evitare sprechi durante l’estrazione del siero. Nello stesso periodo, come riporta Il Foglio, il ministero della salute aveva fatto presente al commissario Arcuri la necessità di rifornirsi di tali siringhe proprio per evitare sprechi.
Nel mondo la corsa all’approvvigionamento delle luer-lock è iniziata nel mese di novembre: «Gli Usa si erano già dotati di 289milioni di siringhe. In Europa invece, 10milioni erano destinate all’Olanda, 30milioni alla Spagna, 35milioni alla Francia, 60milioni al Regno Unito e 0 all’Italia», sottolinea Nicola riprendendo Il Foglio.
Ad oggi in Italia, secondo quanto riferiscono i centri vaccinali di diverse regioni, il numero di siringhe di precisione non è proporzionale alla quantità di fiale ricevute. E non è previsto nemmeno un piano preciso a cui attenersi. Se non fosse possibile usare queste siringhe speciali, spiega il Corriere della Sera in un articolo pubblicato l’11 gennaio, il 16% delle dosi già acquistate andrebbe perduto.
Inoltre, il governo italiano ha dichiarato che nella settimana dal 18 al 24 gennaio sono state consegnate il 20% in meno di dosi rispetto a quelle stabilite. In realtà, spiega Nicola riprendendo l’Associated Press, «se si considerassero 6 dosi per fiala e non 5, le mancate consegne ammonterebbero all’8% in meno e non al 20%».
Pfizer, stabilimenti più grandi per un maggior numero di dosi
Sempre in termini di produzione, l’azienda Pfizer-Biontech ha fatto sapere che dal trimestre di marzo aumenterà la creazione delle dosi da 1,3miliardi a 2miliardi grazie alla pressione della commissione Unione Europea.
Giorgia Colucci riporta quali fattori renderanno possibile l’incremento, che sarà di 700milioni di dosi rispetto a quelle opzionate inizialmente: «L’ampliamento degli stabilimenti di Puurs, in Belgio, e di Marburgo, in Germania, permetteranno di mantenere la cosiddetta “catena del freddo”, condizione essenziale per la conservazione dei vaccini».
Inoltre, sempre per aumentare la produzione, Pfizer ha firmato dei contratti di collaborazione anche con altre aziende farmaceutiche. Tra queste, spiega Giorgia, c’è la Baxter International, con sede a Halle in Germania, che avrà un accordo con la multinazionale per 18 mesi.
Il 27 gennaio, anche il colosso francese Sanofi ha annunciato la decisione di prestare i suoi stabilimenti per la produzione di oltre 125milioni di dosi che saranno destinate ai Paesi dell’ Unione Europea. «Queste collaborazioni, oltre a velocizzare la produzione e la distribuzione del vaccino, evidenziano come anche nel settore farmaceutico ci sia il desiderio comune di combattere la pandemia», sottolinea Giorgia.
“I furbetti del vaccino”: 400mila dosi somministrate a personale non sanitario
Nel primo mese di campagna vaccinale si è fatta strada l’ombra dei cosiddetti “saltafila”, cioè coloro che ricevevano la dose di vaccino anti-Covid senza rispettare le priorità previste dal piano.
A toccare l’argomento è Kevin Bertoni, che riporta alcuni dati sui “furbetti dei vaccini”: «Su un totale di 1milione e 300mila di dosi finora utilizzare, quasi 400mila sono stati iniettate a personale non sanitario appartenente alle alte aree a rischio».
La conferma di questa tendenza arriva dal presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei medici, chirurghi e odontoiatri, il dottor Filippo Anelli, che in un’intervista rilasciata a Open ha affermato: «I furbetti dei vaccini ci sono. Lo abbiamo visto nel caso di dosi distribuite a parenti e amici le settimane scorse. Sono episodi inaccettabili».
A tal proposito, Kevin solleva un interessante quesito: «A queste persone bisogna somministrare la seconda dose?». Come è noto, infatti, per raggiungere la totale immunità ne servirebbero due, a distanza utile una dall’altra. Non fare la seconda dose, continua Kevin, significherebbe aver sprecato la prima ma somministrargliela sarebbe eticamente difficile.
Inoltre, al bando di dicembre per il reclutamento di 15mila operatori sanitari hanno aderito 14.808 medici, a fronte di una richiesta di 3mila, 3.980 infermieri e 408 assistenti sanitari, cioè 7.612 meno di quelli richiesti. Il problema, spiega Kevin, è uno solo: «se non diminuiranno le domande degli infermieri, il budget stanziato non sarà sufficiente in quanto un medico costa più del doppio delle altre due figure professionali».
La Fnopi, la Federazione nazionale ordine professioni infermieristiche, ha sollevato la questione adducendo tra i problemi della scarsa partecipazione degli infermieri al bando la mancanza di assicurazioni da parte del ministero sul diritto degli infermieri e i liberi professionisti a esseri compresi tra categorie per le quali il vaccino anti-Covid è prioritario.
Vaccini: i numeri che danno ragione all’Unione Europea
Investimenti nella ricerca, quasi la metà sono soldi pubblici
Ammonta a circa 20 miliardi di dollari la somma spesa per finanziare la ricerca dei vaccini per il Covid. Di questi, 9,5 miliardi provengono dai vari Stati che hanno investito nelle case farmaceutiche in corsa per la produzione. È quanto si legge nell’approfondimento di Stefano Vergine, pubblicato su Il Fatto Quotidiano martedì 26 gennaio.
Difatti, se fondazioni private e filantropia hanno ampiamente contribuito a sovvenzionare gli studi per il vaccino, un grande apporto è arrivato dalle casse dei vari Paesi. In particolare, riporta Il Fatto, sugli 8,28 miliardi pervenuti ad AstraZeneca, 1,35 è denaro pubblico. I quasi 5 miliardi spesi da Pfizer-BioNTech per la ricerca arrivano per metà dalle casse dello Stato, con la Germania che, complice la presenza nel consorzio di un’azienda “di casa”, ha versato addirittura 345 milioni di euro. Nel caso di Moderna, le cifre sono ancora più sbilanciate: dei 4,10 miliardi utilizzati, soltanto 0,02 miliardi non sono soldi statali. Infine, la statunitense Johnson & Johnson ha speso 2,11 miliardi di dollari in ricerca, 1,50 dei quali pubblici.
A fronte di queste cifre, «si comprende», afferma Francesco Lo Torto, «che gli studi per lo sviluppo del vaccino sono dipese in gran parte dalla presenza di fondi pubblici. Il motivo», prosegue Francesco, «sta nel fatto che le aziende farmaceutiche sono arrivate impreparate all’emergenza. Il motivo è semplice: investire in ricerca e testing per i vaccini non è economicamente conveniente. Si preferisce puntare su farmaci più profittevoli. Inoltre, ben poco si conosce dei dettagli riguardanti gli accordi siglati tra governi e società sui costi della vendita dei vaccini, che vanno ad arricchire le case farmaceutiche».
La scoperta di due Ong: nel 2017 il rifiuto delle case farmaceutiche di sviluppare vaccini per Coronavirus
Tre anni fa le grandi multinazionali del farmaco avrebbero respinto, attraverso l’azione della lobby del farmaco europea, la proposta dell’Unione Europea di impegnarsi nello studio di vaccini contro i Coronavirus. «Lo hanno scoperto due Ong, la belga Global Health Advocates e la francese Corporate Europe Observatory nel marzo 2020», spiega Maria Oberti.
Secondo quanto scritto un rapporto stilato dalle due organizzazioni e ripreso dal Sole 24 Ore, l’Efpia – la Federazione Europea delle industrie e associazioni farmaceutiche -, si è rifiutata di considerare il finanziamento delle preparazioni biologiche, necessarie per trovarsi preparati per epidemie come quella da Covid, quale “argomento di natura normativa”. Un’azione aggravata dal fatto che la stessa Efpia ha gestito, nel periodo 2008-2020, un budget pubblico da 2,6 miliardi di euro per la ricerca farmaceutica dell’Ue. Inoltre, l’organo si è battuto affinché questa possibilità fosse esclusa dai progetti messi in campo dall’Iniziativa sui farmaci innovativi – Imi -, un partenariato pubblico-privato europeo all’interno del quale figurano membri delle maggiori aziende del farmaco, il cui scopo è velocizzare lo sviluppo di farmaci migliori e più sicuri.
«Una ricerca di Bloomberg Intelligence ha mostrato come, nel 2020, le 20 più grandi case farmaceutiche hanno avviato 400 nuovi progetti di ricerca. Soltanto 65 di questi», osserva Maria, «si sono concentrati sulle malattie infettive». Una situazione complessa e che rischia di ripresentarsi in futuro. «L’UE dovrà a breve ritrattare le partnership farmaceutiche, nell’ambito del progetto Horizon Europe. È necessario che i fondi messi a disposizione vengano tutelati meglio di quanto fatto finora».
Il caso Israele-Pfizer e lo strano accordo sui vaccini
Fra le incongruenze riscontrate nella fornitura di vaccini per il Covid, spicca quella di Israele. In poco più di un mese, su un totale di 9 milioni di abitanti, 2,7 milioni hanno ricevuto la prima dose, e 1,1 milioni sia la prima sia la seconda. Portata a esempio come la più veloce ed efficace campagna vaccinale in atto, il Paese governato da Benjamin Netanyahu ha siglato un accordo con la casa farmaceutica Pfizer per assicurarsi un approvvigionamento maggiore rispetto agli Stati europei.
«In cambio di 10 milioni di dosi, il governo israeliano invierà a Pfizer i dati su tutti i cittadini vaccinati. Dati», spiega Umberto Porreca, «che comprendono il lasso di tempo fra l’arrivo del vaccino sul territorio israeliano, fino all’inoculazione nel braccio. In altre parole, si è già creato un business sui vaccini, in cambio di informazioni». In più, il governo israeliano si è aggiudicato la cospicua fornitura dietro un pagamento superiore rispetto alle altre nazioni. Arrivando a pagare 28 dollari a dose, contro i 14,50 dell’Unione Europea e i 19,50 degli Stati Uniti.
Entro fine marzo è prevista la fine della campagna di vaccinazione. Con la possibilità che, una volta terminata, avanzino a Israele centinaia di migliaia di dosi. «Il governo ha già fatto sapere che non ha intenzione di passare le rimanenze ai Paesi vicini. C’è stata la richiesta di Cipro, non accettata, e la richiesta della Palestina, non considerata dall’esecutivo una priorità».
Da Pfizer ad AstraZeneca, ritardi e responsabilità
«Nel giorno in cui l’EMA dovrebbe rilasciare l’autorizzazione per il vaccino di AstraZeneca, la società ha fatto sapere che, al posto degli 80 milioni di dosi previsti, ne consegnerà soltanto 31», dice Valeria De March. «Questo significa una riduzione del 60% rispetto alla fornitura prestabilita per i vari Paesi. In Italia, entro la fine di marzo, arriveranno solo 3 milioni di dosi, a fronte degli 8 milioni concordati». Una problematica che fa il paio con le questioni legate alla somministrazione del vaccino AstraZeneca-Oxford negli over 65, dove gli studi sono ancora pochi per offrire un quadro completo.
«Nel caso di Pfizer, alcuni ritardi hanno causato il rallentamento delle vaccinazioni o il loro fermo», osserva Valeria. In Germania, nella settimana 25-31 gennaio, le dosi in arrivo sono circa 485mila, contro le 842mila previste. Non va meglio in Spagna, dove Madrid ha deciso di sospendere le vaccinazioni, con la regione della capitale ferma a 180mila inoculazioni. Nel nostro Paese, al 20 gennaio le dosi settimanali consegnate da Pfizer ammontavano a 330mila, ossia il 29% in meno di quelle previste da contratto. «Anche nella settimana in corso, l’Italia sta ricevendo una fornitura decurtata del 20% delle dosi, rispetto a quanto stabilito», sottolinea Valeria. «È plausibile aspettarsi che questi ritardi vengano colmati da Pfizer entro la fine del primo trimestre. Tuttavia, occorre considerare il tempo necessario alle strutture medico sanitarie per recuperare il tempo perso».
L’inefficacia delle multe
Uno dei temi legati alle frizioni fra le grandi case farmaceutiche e le istituzioni dell’Unione riguarda la questione delle sanzioni. Utilizzate come deterrente per le multinazionali del farmaco, le multe finora imposte dalle istituzioni europee non hanno sortito alcun effetto dissuasivo. «Sui ritardi riscontrati nelle consegne dei vaccini, è necessario rivedere gli obblighi giuridici. Con l’obiettivo», evidenzia Viola Francini, «di tutelare non solo la trasparenza dei termini di contratto, ma anche di garantire l’accessibilità al vaccino senza scopi di lucro»..
A tal proposito, continuare sulla strada delle sanzioni potrebbe non bastare. «Le multe hanno un impatto irrisorio sulle casse delle società farmaceutiche», afferma Viola. «Lo dimostrano i dati raccolti da una ricerca di Public Citizen, effettuata nel 2016/2017 negli Stati Uniti. Risulta che le maggiori case farmaceutiche sono state multate per un totale di 2,9 miliardi di dollari, per oltre 38 cause di violazione. Un dato irrisorio, se comparato al guadagno di queste aziende negli stessi due anni, rispettivamente di 524 e 551 miliardi di dollari».
Un altro esempio lo si trova in una ricerca pubblicata sul British Medical Journal e riguarda proprio l’americana Pfizer. «Nel 2009, Pfizer ha subito la più grande multa da parte del dipartimento della giustizia statunitense: 2,3 miliardi di dollari. Una cifra pari al fatturato di tre settimane della stessa Pfizer».
Vaccini, Paesi diversi prezzi diversi
Come accaduto con Israele, la differenza di prezzo nell’acquisto dei vaccini ha riguardato anche altre aree del mondo occidentale. In particolar modo gli Stati Uniti. Per quanto concerne Pfizer, i 14,50 dollari a dose dell’Unione Europea si confrontano infatti con i 19,50 dollari degli Stati Uniti e i 28 di Israele. Se, all’apparenza, l’UE sembrerebbe aver concluso l’affare migliore, in realtà paga lo scotto di ricevere servizi peggiori. Difatti, osserva Greta Dall’Acqua, «In Europa si sono verificati numerosi ritardi. Pfizer si è giustificata sostenendo che l’aumento da 1,3 a 2 miliardi di dosi, richiesto dall’UE, ha comportato la momentanea sospensione della produzione dello stabilimento belga, per implementare il processo di produzione».
Si ripresenta dunque lo scarto fra i finanziamenti pubblici stanziati per la ricerca e la realizzazione di vaccini con brevetto privato, la cui distribuzione ai vari Stati è appannaggio della casa produttrice. «Israele, per costi e dosi ricevute da Pfizer, è il caso più eloquente. Tuttavia», ricorda Greta, «anche negli Stati Uniti, l’azienda non ha riscontrato ritardi».
Le disparità tra nord e sud del mondo
In ogni caso, le carenze maggiori nella distribuzione dei vaccini riguardano il sud globale. «Secondo i dati pubblicati da Oxfam, Amnesty International e People’s Vaccine Alliance, organizzazione internazionale di controllo dei vaccini, il monopolio dei colossi farmaceutici impedisce un’equa distribuzione dei vaccini in tutti i Paesi del mondo per scelte di profitto. People’s Vaccine Alliance», spiega Sonia Maura Garcia, «denuncia che in 67 Paesi del sud globale soltanto una persona su dieci avrà la possibilità di vaccinarsi entro il 2021». Tra questi, Kenya, Myanmar, Nigeria Pakistan e Ucraina non raggiungeranno l’immunità di gregge prima del 2024.
I report delle organizzazioni umanitarie chiariscono la profonda disparità rispetto agli Stati più ricchi. «Nel nord del mondo, il numero di dosi disponibili risulta fino a quattro volte superiore rispetto a quelle necessarie a immunizzare le popolazioni dei singoli Paesi». Altre cifre riportate dalle stesse agenzie, prosegue Sonia, testimoniano come «in media, il 14% della popolazione mondiale possiede la metà dei vaccini più efficaci contro il Covid. Inoltre, l’82% dei vaccini Pfizer sono stati finora acquistati da Paesi che corrispondono al 14% della popolazione mondiale, mentre Stati corrispondenti al 12% della popolazione mondiale hanno acquistato il 78% delle dosi di Moderna».