Il 23 febbraio 2021 è un anno dalla prima ordinanza sulla chiusura delle scuole. Nessuno allora immaginava che quei giorni sarebbero diventate settimane e poi mesi. Se allora la didattica a distanza assumeva un connotato di novità, ad oggi da un lato è percepita come limite e addirittura causa di depressione e abbandono degli studi, da altri, tappa obbligata in attesa che la situazione epidemiologica migliori. In ogni caso, la situazione riguarda, tra opportunità e disagio, tutto il Paese, da Nord a Sud, toccando intere classi di ragazzi, dai bambini della scuola d’infanzia agli studenti delle superiori. E si estende ai docenti, alle famiglie e a tutto il personale scolastico.
Il Master di Giornalismo Iulm ha tentato di portare argomentazioni a favore e contro la riapertura delle scuole, citando ricerche e sondaggi condotti da diversi Istituti e associazioni. A riferire i dati a sostegno del ritorno in presenza Kevin Bertoni, dall’altro lato della tavola rotonda, Maria Oberti che ha riportato percentuali a favore della didattica a distanza. Il dibattito cerca una risposta al più che mai urgente quesito che tutti, almeno una volta in queste settimane, si sono posti: è giusto riaprire le scuole?
Riaprire le scuole: perché sì
Le scuole non sono veicolo di contagio
«Nella fascia di età tra i zero e 19 anni, i contagiati erano solo 9.544 al 25 agosto (il lockdown di primavera ha chiuso i ragazzi in casa), diventati ben 102.419 al 7 novembre, con una crescita tra due e cinque volte in più rispetto alle altre fasce di età». A scriverlo è l’UNSIC (Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori) in una nota del 26 novembre scorso, sostenendo di riportare dati dell’Istituto superiore della Sanità per scongiurare l’apertura degli istituti scolastici. Ma quindi, è vero che una delle cause dell’aumento dei contagi è la scuola?
Se si prendessero i dati dell’UNSIC così sono stati riportati sul loro sito, la tesi secondo cui è imprudente permettere a bambini e ragazzi di tornare a scuola sarebbe più che fondata. Sarebbe, ma non è. Se infatti si relativizzano quei numeri e si confrontano al totale dei casi positivi registrati il 25 agosto da un alto e il 7 novembre dall’altra, la tesi non solo verrebbe confutata, ma anche comprensibilmente accantonata. Il 25 agosto il numero dei casi positivi era pari a 19.714, mentre al 7 di novembre a 532.536 (dati del bollettino dell’Istituto superiore di sanità). Il che significa che ad agosto, a scuole chiuse, ben il 50% dei contagiati apparteneva alla fascia di età 0-19 anni, mentre a novembre, a scuole aperte, la percentuale si riduceva al 19%. Percentuali che, per l’appunto, dimostrano quanto poco abbia senso “incolpare” la scuola come luogo di contagio, incentivando la didattica a distanza.
Tra agosto e dicembre solo l’11% dei casi positivi riguarda bambini e ragazzi in età scolare
A favore della tesi secondo cui sia insensato tener chiuse le scuole, Nicola Bracci illustra il rapporto dell’Istituto superiore della Sanità che ha preso in esame il periodo tra il 24 agosto e il 27 dicembre: «In questi 4 mesi i casi di Coronavirus registrati sono stati 1 milione e 783 mila, di questi 203 mila sono in età scolare, pari quindi all’11%». La totalità dei bambini e ragazzi in Italia è di 9 milioni di italiani, il 15 % della popolazione. «Un altro dato rilevante – prosegue Bracci – riguarda l’incidenza giornaliera – in riferimento allo stesso periodo – degli italiani tra i 3 e i 18 anni che è pari a 43 su 100.000, contro gli oltre 60 su 100.000 degli abitanti over 18».
C’è un altro numero incoraggiante: l’Istituto superiore della Sanità riporta che dal 31 agosto al 27 dicembre «periodo che ha coinciso con la riapertura delle scuola e il progressivo confluire nella DAD» ricorda Bracci, i focolai in ambito scolastico sono stati 3173, solo il 2% del totale nel Paese.
Scuole e mezzi di trasporto: dall’aumento delle corse agli ingressi scaglionati
Molto spesso nel dibattito pubblico si è posto il problema dei mezzi di trasporto. A toccare l’argomento e a pulirlo da sommarie argomentazioni, Priscilla Bruno riporta i dati su provvedimenti presi nelle regioni con le province più popolose: Lazio e Lombardia. In quest’ultima «ATM (Azienda Trasporti Milanese ndr) in vista di gennaio ha aumentato i bus turistici per rafforzare il trasporto pubblico con 1200 corse giornaliere in più, di cui 800 dedicate solo agli studenti, e potenziato la metro con 8 treni in più nelle ore di punta» rispetto ai 117 treni di cui l’azienda disponeva prima dello scoppio della pandemia (dati dicembre 2018).
Il sistema dei trasporti rimane, tuttavia, un argomento delicato, lo stesso Beppe Sala lo scorso agosto, in vista della ripartenza dell’anno scolastico aveva chiarito che «margini di flessibilità non ne abbiamo, quelli che avevamo li abbiamo messi in campo, le corse hanno già un notevole livello di frequenza e, oggettivamente, più di così non sarà fattibile».
Anche il Lazio ha potenziato il sistema dei trasporti con l’aiuto di Atac (Azienda per la mobilità) «che ha disposto 110 corse in più» e Astral (Azienda strade Lazio) «grazie a 150 suoi bus turistici messi in campo».
DAD, aumentano i casi di depressione. In 34 mila minacciano di abbandonare gli studi
Un tema di cui si è parlato poco riguarda gli effetti, da un punto di vista psicologico, sui ragazzi, da ormai un anno costretti ad alternare o ad applicare totalmente la didattica a distanza. Gianluca Brambilla ne cita in particolare uno: «divario digitale tra Nord e Sud». «Secondo un rapporto di Alma Diploma – prosegue Brambilla – condotto su più di 70 mila studenti, il 93% ha dichiarato di non aver ricevuto nessun supporto tecnologico». Ragazzi, e quindi intere famiglie, hanno dovuto arrangiarsi nel reperire tablet e pc.
Il disagio ricade sulla qualità dell’insegnamento: «Meno strumenti e meno modalità costringono i docenti a preparare lezioni sempre più frontali, con il rischio di garantire sempre meno assistenza diretta e mirata allo studente» sottolinea Brambilla. Ma è il rapporto di Save the children a riportare il dato più sconcertante: «34.000 studenti – sul totale di 2 milioni – delle scuole superiori rischiano di abbandonare gli studi, in aumento rispetto agli anni precedenti» chiosa Brambilla. Sono gli stessi che riportano conseguenze psicologiche negative, stress, depressione e ansia: «Secondo una ricerca dell’Università di Oxford la percentuale di questi è pari all’80%, mentre nel 2019 corrispondeva al 60%» conclude Brambilla.
Bicocca: «65% delle madri ritiene inconciliabile DAD e proprio lavoro»
Scuola non vuol dire solo ragazzi, ma anche genitori e intere famiglie. Non tutte le madri e i padri possono permettersi di restare a casa e monitorare il minore collegato al pc per la lezione. E chi ha potuto ha riscontrato alcuni disagi. Luca Carrello nell’illustrare un sondaggio dell’Università Bicocca, condotto dai ricercatori del Dipartimento di Scienze Umane per la formazione, ha riportato che «il 65% delle mamme lavoratrici (su 7000 genitori di bambini di scuola primaria e secondaria) non ritiene conciliabile DAD e lavoro e il 30% prende in considerazione di lasciare la propria professione se la DAD dovesse proseguire».
Il sondaggio ha rivelato i seguenti elementi negativi, derivanti dalla DAD, elencati da Carrello: «critica delle madri delle relazioni a distanza con compagni e insegnanti; eccessiva quantità dei compiti; scarsa varietà nella proposta didattica e difficile bilanciamento del tempo dedicato allo studio e allo svago».
Per non parlare, infine, del fatto che – come ricorda Carrello – le difficoltà dei genitori ricadano inevitabilmente sui figli e sul loro rendimento scolastico «soprattutto per le famiglie numerose, non solo da un punto di vista economico, ma anche dal punto di vista della salute psicofisica del ragazzo».
I provvedimenti delle Regioni: l’esempio del Lazio
Sono molte le disposizioni emanate dalle Regioni per incentivare la diminuzione del contagio nelle scuole. Giorgia Colucci riporta l’esempio del Lazio che «sta tentando di dilazionare gli ingressi, dove il 60% degli studenti delle scuole superiori entra a scuola alle 8, mentre il restante alle 10. Questa misura permette di diminuire la pressione sia sui mezzi pubblici, sia durante l’entrata a scuola».
Colucci poi ricorda che attualmente i ragazzi che stanno andando a scuola sono quelli che hanno un’età inferiore ai 14 anni, «quindi scuola di infanzia, primarie e secondarie di primo grado pari a 5 milioni, rispetto ai 3 milioni delle scuole superiori». Colucci precisa che sono proprio i bambini che ad oggi stanno andando a scuola i soggetti a cui «risulta più difficile applicare le misure di distanziamento, l’uso della mascherina» rispetto ai più grandi che hanno una maggiore consapevolezza del proprio comportamento.
TAR: sempre più ricorsi accolti contro la DAD
E, mentre i dati parlano chiaro, la giustizia sta piano piano accogliendo i vari ricorsi contro le chiusure degli istituti scolastici. Finché la DAD rappresentava una modalità temporanea nessuno si era pronunciato contro la chiusura delle scuole. Ad oggi, a quasi un anno dallo stato di emergenza dichiarato dal governo Conte, sono diversi i tribunali che hanno cambiato direzione.
Alessandro Bergonzi riporta l’esempio del TAR campano: «Il 19 ottobre il tribunale rigetta il ricorso verso l’ordinanza di De Luca, mentre un giorno dopo, il 20 gennaio, la accoglie, sostenendo che tutte le scuole di ogni ordine e grado devono riaprire». Bergonzi riporta inoltre «compressione immotivata del diritto di istruzione» come principale motivazione del TAR dell’Emilia Romagna che ha accolto un altro ricorso contro la DAD.
Addirittura in Calabria ci sono cinque sentenze, tutte che guardano la stessa direzione: «gli alunni positivizzati rappresentano un caso ridotto, pertanto si reputa inutile tener chiuse le scuole» asserisce Bergonzi, citando in particolare il TAR di Crotone.
Riaprire le scuole: perché no
Gli insegnanti sono una categoria a rischio
Vaccinare i docenti e il personale scolastico per riaprire le scuole. È l’appello lanciato dal mondo istituzionale per permettere agli studenti di tutta Italia di ritornare sui banchi di scuola. Quella degli insegnanti, infatti, è ritenuta una categoria a rischio a causa dell’età avanzata.
Secondo un’indagine internazionale dell’Ocse sull’insegnamento e l’apprendimento, in Italia i docenti hanno un’età media di 49 anni, superiore a quella rilevata negli altri Paesi Ocse e pari a 44 anni. Inoltre, il 48%, in Italia, ha 50 anni e più, un dato significativo se confrontato con la media Ocse (34%).
«Questo è uno dei motivi per cui tornare in presenza può essere rischioso», spiega Umberto Porreca. Inoltre, «con il decreto legislativo del 31 luglio, per ottenere l’esonero dal lavoro, bisogna presentare un certificato medico che attesti che il soggetto in questione è affetto da una malattia degenerativa o comunque da gravi patologie. In precedenza, bastava essere over 55 per ottenere l’esonero a causa del Covid».
Docenti: no, non è possibile vaccinarsi subito
Anticipare la campagna vaccinale per questa categoria, prevista tra aprile e agosto, non può essere la soluzione. Chiara Zennaro spiega che dopo operatori sanitari, medici, infermieri e anziani «saranno vaccinati coloro che hanno tra i 60 e i 79 anni e chi presenta una comorbidità. Tra i primi rientrano più di 13 milioni di persone, tra i secondi più di sette milioni». Per cui «dare la precedenza al personale ATA e agli insegnanti vorrebbe dire anticipare la vaccinazione di un milione di persone, lasciando indietro chi corre un rischio più alto».
Per la fascia d’età 60-69 anni, infatti, «il tasso di mortalità è pari al 3%, per quella tra i 70-79 anni raggiunge il 10%. Contro lo 0,2% delle persone tra i 30 e i 55 anni».
Ricorso contro la riapertura delle scuole
Ma il ritorno tra i banchi dei ragazzi non costituisce un rischio soltanto per gli insegnanti e il personale scolastico, come ricordato da Valeria de March: «Il Ministero della Salute ha reso noto che, in Italia, sono oltre 14 milioni le persone a rischio, di questi oltre 5 milioni e mezzo sono under 30. Questo significa che sono esposti al pericolo anche genitori, fratelli, sorelle».
Da questa preoccupazione, è nata l’iniziativa di 8mila famiglie che si sono unite per presentare un ricorso al Tar del Lazio contro il ritorno in presenza: «Questo perché ad oggi il Ministero propone come unica soluzione alle persone fragili la possibilità di scegliere se proseguire con la didattica a distanza», non tenendo in considerazione la salute dei parenti dell’alunno.
Una richiesta raccolta anche dall’Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori. «Secondo quanto riportato dall’UNSIC, a gennaio sono state raccolte oltre 140mila firme per rinviare l’apertura delle scuole», afferma Sonia Maura Garcia.
La gestione dell’alternanza tra DAD e presenza
Ma il ritorno in classe si complica anche a causa di alcuni problemi noti sin dall’inizio del blocco delle attività scolastiche e non ancora risolti. Uno di questi riguarda la gestione dei casi di contagio nelle aule.
Un esempio limite è il Veneto che, con l’entrata in vigore il 7 gennaio della nuova ordinanza, impone, in caso di positività di uno studente delle elementari o delle medie, una quarantena preventiva di 10 giorni per tutta la classe, al termine del quale sarà necessario dell’esito negativo di tutti i tamponi.
«Come riferisce l’Ufficio scolastico regionale, per effetto di questa ordinanza, dal 7 al 17 gennaio, sono finite in quarantena 200 classi, per un totale di 4mila studenti», spiega Viola Francini, che aggiunge: «Questo crea enormi difficoltà nel gestire l’alternanza delle lezioni tra didattica a distanza e in presenza».
Il trasporto pubblico: capienza massima e alta possibilità di contagio
Altro problema che non ha ancora trovato una soluzione, e che rende insostenibile la riapertura delle scuole, è quello relativo al trasporto pubblico. Come raccontato Greta Dall’Acqua, «attualmente la capienza massima è stata stabilita al 50%, tuttavia questa percentuale non consentirebbe di mantenere il distanziamento interpersonale di un metro». Sarebbe necessario, infatti, ridurla «al 25%, ma questo causerebbe enormi problemi nella gestione delle ore di lezione».
Inoltre, come ricorda Greta, non tutte le Regioni hanno potenziato le corse o il numero dei mezzi pubblici in circolazione. E, a pagare il conto più salato, sono gli studenti che abitano in provincia, per i quali raggiungere la scuola significa dover percorrere lunghe tratte per arrivare a scuola: «Più tempo si passa in un luogo chiuso, più aumenta la possibilità di contagio». Così, i genitori sono costretti a ricorrere a mezzi privati e quindi a sostenere costi ingenti in termini economici e lavorativi.
L’influenza stagionale: il picco previsto a febbraio
Ma, come Francesco Lo Torto, tra i motivi per cui è necessario tenere le scuole chiuse, ce n’è un altro irrilevante solo in apparenza: l’arrivo della stagione dell’influenza. Analizzando i rapporti di InfluNet, è emerso che «negli ultimi due anni, il picco è arrivato alla quinta settimana, quindi verosimilmente si verificherà tra la prima e la seconda settimana di febbraio».
L’influenza costituisce un problema, perché i sintomi sono molto simili a quelli del Covid-19: «Questo – conclude Francesco – creerebbe panico tra le persone e conseguenti problemi di tracciamento e di pressione sulle strutture ospedaliere. Ecco perché risulterebbe prudente chiudere gli istituti».