Come il tiro da tre punti ha cambiato la pallacanestro

In NBA sono sette metri e 25, al di qua dell’Atlantico si scende a sei e 75. È la distanza minima da cui viene eseguito un tiro da tre punti, la conclusione che ha progressivamente polarizzato lo sviluppo tecnico della pallacanestro negli ultimi vent’anni.

Qualche tempo fa Kirk Goldsberry, uno dei teorici più noti del basket americano, ha pubblicato un tweet ricondiviso da quasi 10.000 utenti. “The game has changed”, una mappa che mostra le 200 zone di campo da cui si tirava di più nell’annata 2001-2002 messe a confronto con la stagione in corso (2019-2020). La differenza è lapalissiana: oggi i midrange shots, i tiri dalla media distanza, sono spariti dai radar, almeno per quanto riguarda le prime 200 posizioni. Le scelte predominanti nella NBA del 2020 sono la conclusione ravvicinata e, appunto, quella dalla distanza, il tiro che vale tre punti.

La grafica proposta da Goldsberry è tanto esaustiva quanto fautrice di una serie di interrogativi. Lo sport è materia regolata da piccole e grandi complessità che, inevitabilmente, ne influenzano il progresso nel tempo: cambiano le tecniche d’allenamento, il livello di atletismo, la dieta e la preparazione, così come gli strumenti e le superfici, tutto nel buon nome della competitività espressa ai massimi livelli.

Il basket non fa eccezione. Gli atleti che oggi calcano i parquet sono mediamente più dotati, i ritmi sono più sostenuti e il numero dei possessi è sensibilmente più elevato rispetto anche solo a una decade fa. La velocizzazione del gioco ha convinto le squadre a organizzare un numero sempre più alto di attacchi attraverso giochi a metà campo brevi e che si consumano ben prima dello scadere dei 24 secondi. Soluzioni rapide significano più isolamenti, più pick and roll, più uscite dai blocchi nella parte iniziale dell’azione, tutte scelte che spesso collimano con un tiro da tre punti.

Una vita tecnica fa

Chi ha avuto la fortuna di seguire i Chicago Bulls di Michael Jordan ricorderà gli isolamenti in post medio del 23, una delle tante carte che tirava fuori dal mazzo per battere il marcatore di turno. Gioco di piede perno, una, due finte, fade-away, canestro. Situazione che sovente si riproponeva nello scacchiere di Phil Jackson, una componente importante dell’attacco triangolo concepito da Tex Winter e forgiato dalle mani del maestro Zen. Nella NBA moderna, dove i vantaggi si costruiscono in altre zone del campo, una situazione tattica di questo tipo si ripropone molto più raramente rispetto all’epoca di MJ a Chicago.

 

Nel gruppo che vinse il secondo three-peat tra il 1996 e il 1998 c’erano anche Luc Longley e Bill Wennington, due che oggi verrebbero spediti al catasto col marchio di “lunghi vecchio stile”. Wennington in particolare, centro di due metri e 13 transitato anche dalle parti di Bologna, campava di tiri presi dal cosiddetto mezzo angolo: quando un piccolo penetrava Bill si defilava lungo la linea di fondo, pronto a ricevere uno scarico per un tiro piedi per terra da cinque metri che era solito mandare a bersaglio con sistematica affidabilità. Ecco, oggi un giocatore con quelle caratteristiche e quel genere di conclusione non esiste quasi più, rimpiazzato da Big Men che spaziano a tutti campo, partono in palleggio e dopo un blocco si aprono spesso e volentieri per un tiro dal perimetro.

Sempre anni ’90, ma stavolta Western Conference, dove facevano scintille i Seattle Supersonics guidati dall’asse Gary Payton-Shawn Kemp, un roster che nel 1996 conquistò le finali NBA. In quei Sonics militava un certo Sam Perkins, ala-pivot che spesso e volentieri scaldava la mano dalla distanza guadagnandosi, negli anni, la reputazione di specialista nel tiro da tre. Se negli anni ’90 un giocatore come Perkins viveva una carriera da mosca bianca, oggi un giocatore di sette piedi che tira regolarmente dall’arco dei tre punti rispecchia la normalità di una lega in cui i confini sembrano non esistere più. Il giocatore che qualche anno più tardi ha definitivamente alzato l’asticella risponde al nome di Dirk Nowitzki, probabilmente il più grande tiratore sopra i due metri e dieci nella storia della pallacanestro.

Nell’All Star Saturday del 1997 Sam Perkins partecipò addirittura alla gara del tiro da tre

Altro esempio utile a capire quanto rapidamente si sia evoluto il pianeta basket è quello di Richard Hamilton, guardia tiratrice che ha costruito la sua fortuna nei primi anni 2000 in maglia Detroit Pistons, con cui ha conquistato uno storico anello nel 2004 e una finale nel 2005. In situazione di difesa schierata “Rip” girava intorno ai blocchi dei lunghi, riceveva palla e si arrestava appena dentro l’area, distanza da cui lasciava partire un’esecuzione mortifera che nella maggior parte dei casi si traduceva in due punti.

In quella pallacanestro un giocatore come Hamilton andava a nozze, oggi invece il livello di atletismo è cresciuto a tal punto che la maggior parte dei difensori è in grado di recuperare più in fretta la posizione e contestare con efficacia un long two o una conclusione dalla media distanza. La conseguenza è che il range di tiro ha cominciato inevitabilmente e progressivamente ad allargarsi oltre la linea dei sette metri e 25.

 

Una questione di numeri

C’è poi da considerare la differente economicità che intercorre tra una scelta di tiro e l’altra. In media, una conclusione presa tra i 2.5 metri e la linea da tre produce 0.80 punti, mentre un tentativo scagliato da oltre l’arco ne genera 1.1. In altre parole questo significa che statisticamente un tiro da tre ha una resa maggiore rispetto a un tiro preso dalla media distanza. Gli allenatori moderni ne sono consapevoli e cercano di sfruttarlo a proprio vantaggio, adeguando le caratteristiche della propria squadra al servizio del gioco perimetrale.

Un fenomeno esploso specie grazie al “caso” dei Golden State Warriors e in particolare del loro leader Steph Curry, l’uomo da ammirare ma non da imitare capace di stravolgere il concetto di “gioco a metà campo”, una rivoluzione che in parte si era già intravista alcuni anni prima coi Phenix Suns guidati da Steve Nash e allenati da Mike D’Antoni.

I Warriors meriterebbero un capitolo a parte, ma quel che conta capire è come il loro modo di giocare abbia in qualche modo influenzato il resto della lega, con ripercussioni, come vedremo, anche nel Vecchio continente.

 

Tutto ciò non significa che il tiro dalla media distanza sia destinato a sparire, anzi. Oggi le difese si adeguano di continuo per limitare i tentativi ravvicinati e quelli dalla distanza, tendenza che trascina dietro sé un vuoto tattico da colmare specie nei finali di partita, quando gli schemi saltano come tappi e occorre freddezza nell’elaborare un piano B per trovare la via del canestro. Lo sa bene James Harden, letale dal perimetro ma che ha sviluppato nel tempo la capacità di spezzare i continui raddoppi che subisce fuori dall’area per poi concludere con un arresto e tiro dalla lunetta.

Lo sa bene sopratutto Chris Paul, che alla soglia dei 35 anni sta costruendo un’annata da mettere in cornice con la maglia degli Oklahoma City Thunder. Il prodotto di Wake Forest abbina con incisività il suo consueto sfruttamento delle spaziature a un tipo di tiro oggi giudicato a basso tasso econometrico. Quasi il 45% dei tentativi che escono dalle mani di CP3 si consuma dalla media distanza, statistica che rispecchia pressoché un unicum della NBA moderna.

E in Europa?

Nelle ultime dieci edizioni dell’Eurolega la frequenza dei tiri da tre punti è salita di anno in anno, ma mai come nella stagione in corso. In questa edizione della kermesse continentale il numero di triple tentate è di 24.77 a partita con una media realizzativa di 9.24, una crescita del 7.18% rispetto alla passata stagione. Ci sono cinque squadre (Alba Berlino, Anadolu Efes, CSKA, Khimki e Real Madrid) che superano i dieci tentativi per gara, numeri che non si erano mai visti prima e che certificano come ormai, anche in Europa, il vento sia definitivamente cambiato.

Mauro Manca

Appassionato di sport e cinema. Scrivo per esigenza e credo in un'informazione libera e leale, amo raccontare storie che intrecciano il tessuto sportivo a quello sociale e politico.

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