Nella notte tra giovedì e venerdì, gli Stati Uniti hanno attaccato diversi obiettivi all’aeroporto internazionale di Baghdad, capitale irachena, uccidendo anche il generale Qasem Soleimani. Gli Stati Uniti lo consideravano un nemico da anni, ritenendolo responsabile di molte delle crisi del Medio Oriente per via del suo ruolo centrale nelle operazioni iraniane all’estero. Capo delle Forze Quds, il corpo speciale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, aveva raccolto preziose informazioni di intelligence. Soprattutto, era uno degli uomini di fiducia della Guida suprema Ali Khamenei, massima autorità iraniana.
L’ordine sarebbe arrivato proprio da Donald Trump in persona. La decisione non sarebbe passata neppure dal Congresso statunitense e sarebbe stata resa nota soltanto ad operazione conclusa. Come? Con un tweet presidenziale con l’immagine della bandiera americana.
Nessuno degli ultimi due presidenti aveva mai ordinato di attaccare Soleimani. George W. Bush e Barack Obama avevano sempre mantenuto alta l’attenzione sulle mosse del generale nonostante non fosse un obiettivo militare. Neppure Israele, storico nemico dell’Iran, aveva mai ordinato il suo assassinio. La morte di Soleimani avrebbe potuto provocare l’inizio di una nuova guerra.
La morte di Soleimani: le conseguenze in politica estera
Quali saranno le conseguenze dell’attacco statunitense? L’Iran potrebbe decidere di agire con forza, soprattutto perché preso alla sprovvista in un momento di difficoltà: le proteste di piazza antigovernative hanno occupato il regime su più fronti e adesso potrebbe decidere di aumentare la tensione con gli Usa. I disordini interni, però, potrebbero anche costituire un’attenuante per la reazione, rimandando lo scoppio di un conflitto a un momento successivo alle manifestazioni e alla crisi economica dovuta alle sanzioni statunitensi e internazionali.
L’attacco al generale però ha delineato delle nuove “regole del gioco”: gli Usa hanno ucciso quello che per loro era un terrorista, ma per l’Iran si tratta di un personaggio la cui rilevanza era pari a quella di un ministro. La portata di un evento del genere è importante, forse una delle più significative dell’ultimo decennio. Certo, Soleimani era unico, ma non insostituibile: il regime lo aveva elevato a simbolo nazionalista nel 2013 e la stampa internazionale aveva iniziato ad occuparsi di lui. Famoso è il ritratto scritto dal giornalista Filkins, pubblicato sul New Yorker.
Soleimani era diventato ancor più influente nel corso degli anni grazie alla sua fama di architetto delle operazioni militari iraniane in Siria, al fianco del regime di Bashar al Assad, altro nemico degli USA. Nonostante tutto questo però, non è insostituibile, poiché al suo fianco erano stati addestrati per anni soldati in grado di prendere il suo posto. Tra questi Esmail Qaani, già suo vice, sicuramente meno carismatico, ma con le stesse competenze. Pensare, quindi, che la morte di Soleimani possa indebolire l’azione delle Guardie rivoluzionarie è illusorio secondo gli analisti, soprattutto in virtù delle amicizie dei soldati iraniani con gruppi simili in giro per il Medio Oriente. L’alleanza con i libanesi di Hezbollah, infatti, risale a molto prima dell’arrivo di Soleimani e così molti altri legami simili che resistono ancora oggi. Gli Stati Uniti hanno ucciso una figura popolare in molti settori, ma esattamente come il suo ruolo, anche il suo omicidio è stato altamente simbolico. Il simbolismo però ha il potere di muovere reazioni violente. La guerra che potrebbe scoppiare, insomma, non sarebbe un grande conflitto con forze di terra, aeronautica e marina. Secondo Yaroslav Trofimov, giornalista del Wall Street Journal esperto di Medio Oriente, le ritorsioni iraniane potrebbero essere informatiche e terroristiche. Oppure il regime potrebbe avvalersi di gruppi amici, in particolare in Iraq e Libano, per attaccare direttamente i militari statunitensi e quelli dei loro alleati.
Il ruolo di Iraq e Libano
Già qualche giorno prima dell’attacco americano, migliaia di miliziani iracheni filo-iraniani avevano assediato l’ambasciata USA a Baghdad, con la tacita approvazione del governo, per ribellarsi all’uccisione di venti miliziani avvenuta appena pochi giorni prima. Adesso, se l’episodio dovesse ripetersi, il governo di Baghdad probabilmente non permetterebbe che l’assedio si risolva senza morti e feriti.
La questione non riguarda solo Stati Uniti e Iran: altri protagonisti sono Iraq e Libano. Insieme a Soleimani sono stati uccisi anche comandati delle milizie irachene vicine all’Iran e uno scenario plausibile sarebbe un conflitto armato in una terra amica sia degli USA che dell’Iran, ossia l’Iraq. Le ripercussioni, ovviamente, ci sarebbero anche in Libano. Questi paesi sono riusciti a mantenere nel corso degli anni un certo equilibri tra le richieste americane e quelle iraniane. In Iraq, le forze statunitensi hanno continuato ad addestrare i militari locali nonostante una presenza massiccia di forze anti-americane (vedi milizie sciite filo-iraniane). In Libano, gli USA hanno addirittura addestrato e finanziato l’esercito nazionale nonostante l’alleanza del governo con Hezbollah, gruppo radicale sciita considerato terroristico dal presidente Trump. Con l’uccisione di Soleimani, questo equilibrio potrebbe saltare e Iraq e Libano dovranno probabilmente schierarsi da una parte o dall’altra.
In entrambi i paesi ci sono manifestazioni contro i rispettivi governi: l’Iraq si ribella all’ingerenza straniera negli affari interni, mentre in Libano la nascita di un nuovo movimento anticorruzione sta sfidando il sistema politico controllato da Hezbollah. In entrambi i casi, le Guardie rivoluzionarie iraniane hanno usato la loro influenza per cercare di mantenere salde le strutture esistenti. Dall’altra parte, le strategie USA in politica estera sembrano essere imprevedibili: l’uccisione del generale è sicuramente un colpo di scena dalle conseguenze non ancora chiare, ma evidenzia l’imprevedibilità delle mosse di Donald Trump in terra straniera. La decisione è stata presa in seguito alla morte di un militare statunitense durante un attacco di una milizia sciita filo-iraniana. Il Presidente, però, aveva rinunciato a rispondere all’Iran per episodi molto più gravi della morte di un contractor, come per esempio gli attacchi alle petroliere straniere nel Golfo Persico, l’abbattimento di un drone americano e i bombardamenti a due importanti stabilimenti petroliferi sauditi.
Per gli Stati Uniti, non avere una strategia significa rischiare di non sapere come rispondere a un’eventuale offensiva dell’Iran. Inoltre, l’uccisione di Soleimani potrebbe cambiare gli equilibri nella politica iraniana, favorendo le forze ultraconservatrici, da sempre ostili all’Occidente. Ne risentono anche paesi come l’Iraq, che potrebbe scegliere di schierarsi con l’Iran in maniera definitiva, cercando un partner più affidabile e sicuro rispetto agli Stati Uniti.