L’Italia continua a fare i conti con i suoi foreign fighters. Sono 140 gli italiani, tanti naturalizzati, affiliati all’Isis che combattono con lo Stato islamico. Di questi 50 sarebbero morti sul campo di guerra, otto sono rientrati in Europa monitorati a vista e cinque adulti e sette minori, di nazionalità italiana, vivono nei campi siriani.
Tra di loro tre sono i figli di Alice Brignoli e del marito di origini marocchine, Mohammed Koraichi, entrambi prigionieri dei curdi. La coppia nel 2015 aveva lasciato Bulciago, cittadina nel lecchese, per unirsi all’Isis portandosi dietro i figli. Sui tre minori attualmente è concentrata l’attenzione del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri e della procura di Milano.
Oltre ad Alice e al marito, nei campi di prigionia si trova anche Sonia Khediri, ragazza italo-tunisina proveniente da Treviso, e partita a 17 anni insieme al marito Abu Hamza al Abidi. L’uomo era una delle figure di spicco del Daesh (Stato islamico) ed è stato ucciso in combattimento. Con lei Meriem Rehaily, 23enne padovana originaria del Marocco, su cui pende una condanna per arruolamento con finalità di terrorismo.
La storia di Alvin
Alvin Berisha è un ragazzino italo albanese di 11 anni. Nel 2014, la madre lo porta in Siria. Successivamente suo padre tenta di salvarlo e riportarlo in Italia, ma il suo rientro è bloccato dalle autorità, dal momento che il piccolo non possiede la cittadinanza italiana. Sulla questione interviene il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che, insieme al ministero degli Esteri e alle autorità albanesi, riporta Alvin a casa.
Le responsabilità di Erdogan
Lo scorso ottobre, il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan lancia un attacco contro l’enclave curda del Rojava causando la fuga di molti prigionieri dalle carceri. I curdi richiamano alla responsabilità diversi Stati europei. Tanti foreign fighters partiti dall’Europa arrivano da Gran Bretagna, Francia, Germania e Belgio. Questi ultimi tre, insieme all’Olanda, rifiutano di rimpatriarli e processarli nei loro territori.
«Per quanto riguarda l’Europa e gli altri partner occidentali – spiega Thomas Renard, senior Fellow dell’Egmont Institute di Bruxelles – possiamo dire che i governi si sono sottratti alle loro responsabilità adducendo come scusa la reazione dell’opinione pubblica. Alcuni, incluso il Regno Unito, sono addirittura arrivati al punto di revocare selettivamente la cittadinanza».
L’allarme dell’Unicef
A preoccupare è il numero elevato di minori nei campi di detenzione: si teme per la loro salute fisica e psichica. I dati più critici, raccolti dall’Unicef, riguardano proprio i rifugiati siriani e le comunità ospitanti in Egitto, Giordania, Libano, Iraq e Turchia. Nel 2020 si stima che saranno 59 milioni i bambini, che arrivano da 64 Paesi diversi, ad avere bisogno di aiuto. «Un numero storico di piccoli costretti a lasciare le proprie case necessita urgentemente di protezione e supporto», precisa Henrietta Fore, Direttore generale dell’Unicef confermando che i conflitti restano le «cause principali che costringono milioni di persone a cercare aiuti salvavita».
Raccolta fondi record
Per far fronte a questa emergenza, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia lancia una raccolta di denaro. L’obiettivo è grande: si vuole arrivare a 4,2 miliardi di dollari, più del triplo di quanto richiesto ai propri donatori nel 2010.
Gli aiuti serviranno per curare la malnutrizione, per somministrare vaccini e fornire accesso all’acqua potabile. Potrebbero assicurare assistenza per la salute mentale e psicosociale a 4,5 milioni di bambini e alle persone che se ne prendono cura, oltre che far fronte alla violenza di genere.
Tra le urgenze, c’è quella educativa: il programma dell’Unicef mira a fornire accesso all’istruzione a 10,2 milioni di bambini, tra cui i più piccoli.