È trascorso un anno esatto da quando Silvia Romano, 24 anni, in Kenya per un progetto umanitario nel piccolo villaggio di Chakama con la Onlus Africa Milele, è stata sequestrata da un gruppo di criminali locali. Le domande che per tutti questi mesi hanno riempito pagine di giornali, notiziari e social network – dov’è Silvia? È ancora viva? – ancora non hanno trovato una risposta.
Le indagini vanno avanti, ora anche grazie alla procura di Roma e i carabinieri del Ros, coordinati dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco, che finalmente hanno trovato il modo di collaborare con le autorità keniote e sono stati messi a disposizione di documenti, verbali e tabulati telefonici. Ma le informazioni certe sono sempre poche.
Alcuni dei rapitori sono stati identificati poco dopo il rapimento: Ibrahim Adhan Omar – libero su cauzione, fuggito e ora irreperibile, Moses Lwali Chembe – scarcerato per aver pagato la garanzia – e Abdullah Gababa Wario, l’unico ancora in prigione.
Sono stati gli stessi tre presunti rapitori, ora sotto processo, a confessare le dinamiche della vicenda. Sarebbero stati reclutati da Said Adhan, colui che avrebbe ideato il piano, ricercato dal gennaio scorso ma di lui non risultano tracce. Hanno poi raccontato che è stata una squadra di sette persone a rapire Silvia. Hanno attraversato il fiume Galama e sono montati a bordo di due motociclette. Su una di queste sono saliti quattro uomini con l’ostaggio, promettendo agli tre di incontrarsi il giorno seguente per consegnare il compenso stabilito: 100 mila scellini, l’equivalente di 890 euro. Non si sono presentati, lasciando i tre – poi arrestati – a mani vuote.
L’ultimo annuncio dell’intelligence risale a settembre: «Silvia Romano è viva e ci stiamo adoperando per portarla a casa».
Nel frattempo però sembra che la ragazza sia stata ceduta a un gruppo legato ai terroristi jihadisti di Al-Shabaab, che ritenevano Silvia colpevole di “proselitismo religioso”, ovvero la ricerca di nuovi seguaci da convertire al cristianesimo. A dimostrarlo ci sarebbero anche contatti telefonici tra gli esecutori materiali del sequestro e la Somalia nei giorni successivi al 20 novembre 2018.
Secondo fonti vicine al governo somalo, esisterebbe anche un video che ritrae Silvia prigioniera in un villaggio. Rimane da chiarire però se si trovi davvero nel Paese, essendo confinante con il Kenya. Non ci sono certezze riguardo la sua conversione all’Islam o di un suo matrimonio musulmano, come spesso si è ipotizzato nei mesi precedenti.
Gli inquirenti italiani stanno ora valutando l’ipotesi di inviare una richiesta internazionale alle autorità somale per collaborare nell’ambito delle indagini e delle ricerche della giovane. La possibilità di un responso positivo è molto remota, in quanto il governo di Mogadiscio ha a malapena il controllo del palazzo presidenziale, Villa Somalia. Il Paese è quasi interamente nelle mani di numerose bande armate che controllano traffici illegali di ogni tipo.
Massimo Alberizzi, direttore del quotidiano online Africa Express e giornalista per “Il Fatto Quotidiano”, attualmente inviato da Nairobi, racconta che le voci sulle sorti di Silvia continuano a girare. Ma pur sempre di voci si tratta. C’è chi sostiene che la volontaria sia stata portata nella foresta di Boni, al confine tra i due paesi, frequentata per lo più da gruppi criminali, bracconieri, integralisti islamici, fuorilegge in fuga… Altri parlano di un suo trasferimento all’arcipelago delle isole Bajuni, di fronte al porto somalo di Chisimaio. «Si tratta di ipotesi che arrivano alla polizia keniota direttamente dagli abitanti dei villaggi. E nonostante siano voci, ed è giusto dargli il peso devono avere, sembra che non stiano indagando su niente» ha commentato.
Riguardo la collaborazione tra inquirenti italiani e autorità keniote, il reporter afferma «Il problema è che ognuno ha dei ruoli precisi. Il mio da giornalista è capire qual è la verità. La polizia, i diplomatici e gli 007 hanno più in mente la ragion di Stato, che tiene conto di altre cose: ad esempio, nel caso dell’omicidio di Giulio Regeni, il Paese dà priorità al bisogno di petrolio più che alla verità del caso. Gli italiani devono battere i pugni sul tavolo – continua – senza scendere a compromessi. Non è accettabile che siano arrivati in Kenya solo il 23 agosto scorso».
Alberizzi ritiene altamente improbabile la possibilità di un sostegno da parte delle forze dell’ordine somale. «Anche solo pensarlo è demenziale. La soluzione è solo quella di cercare la verità. Se Silvia fosse stata una ragazza americana, la costa keniota sarebbe stata fin da subito piena di marines pronti a intervenire».
Alla fatidica domanda sulle sorti di Silvia aggiunge: «Non si sa se sia viva, non si sa dove sia. Nessuno dice niente. Non voglio esprimere un’opinione perché il mio compito è quello di lavorare sui fatti reali».