La Perla d’Oriente brucia.
La tetra notte di Hong Kong fa da sfondo a uno scenario surreale: fiamme, barricate, sirene.
La polizia cinge d’assedio il Politecnico della città, occupato da giorni dai manifestanti pro-democrazia. Scontri durissimi, che sono già costati 38 feriti tra forze dell’ordine e studenti in rivolta: 5 tra loro, stando al bilancio della Hospital Authority, sono gravissimi.
Nella notte di domenica la polizia ha tentato di introdursi nelle strutture dell’università, dove sono arroccate tra le 500 e le 800 persone: tra questi ci sarebbero moltissimi adolescenti. I manifestanti hanno risposto con ferocia: sassi, mattoni, frecce e bombe incendiarie hanno trasformato i ponti che collegano il campus al resto della città in vere e proprie zone di guerra.
La battaglia del PolyU
Gli scontri del Politecnico sono l’ultimo capitolo della rivolta che ha messo a ferro e fuoco la città di Hong Kong, il culmine di un’escalation di tensioni che continua ormai da mesi.
In un primo tempo le università erano rimaste escluse dalla protesta. Nell’ultima settimana, invece, diverse scuole della regione sono state occupate, in una mobilitazione coordinata per interrompere lo svolgimento di lezioni e attività didattiche.
«Deponete le armi e uscite in modo ordinato», questo l’appello della polizia ai manifestanti asserragliati nel PolyU, una richiesta di resa incondizionata. Parole destinate a cadere nel vuoto: gli occupanti hanno eretto trincee sui ponti per rallentare l’avanzata degli agenti e hanno risposto alle piogge di gas lacrimogeni e proiettili di gomma con armi artigianali.
Un video girato domenica mostra un gruppo di rivoltosi impegnati a scagliare bombe incendiarie sfruttando una fionda improvvisata di grandi dimensioni.
A petrol bomb is fired from a rooftop catapult towards police lines at #PolyU pic.twitter.com/ouYydMBAGX
— Antony Dapiran (@antd) November 17, 2019
Tra venerdì e domenica la polizia ha comunicato di aver arrestato 154 persone, molte delle quali si sarebbero qualificate come personale medico, paramedico e giornalisti. Stesso destino rischiano tutti i manifestanti arroccati nel campus, che a detta di un portavoce delle forze dell’ordine sono «sospettati di rivolta».
Il presidente del Politecnico Teng Jin-Guang ha affermato di aver raggiunto un accordo con le autorità in un video messaggio. Sarà lui stesso ad impegnarsi perchè gli studenti siano scortati a una stazione di polizia e a garantire l’equità del trattamento che riceveranno.
I contestatori tuttavia non sembrano disposti a concessioni. Gli agenti, in risposta, avrebbero minacciato di utilizzare anche proiettili veri nel caso in cui le resistenze non dovessero interrompersi.
All’alba, in seguito all’irruzione nell’università tentata dalla polizia, alcuni manifestanti hanno provato a forzare i blocchi e lasciare la zona, ma sono stati respinti nel campus con l’impiego di gas lacrimogeni.
L’origine della protesta
Da dove hanno origine le proteste di stampo anti-governativo che da mesi stanno dilagando a Hong Kong?
Tutto ha avuto inizio ad aprile, con l’emendamento di una legge sull’estradizione in Cina. Se approvata in Parlamento, questa avrebbe consentito di processare sul continente le persone accusate di aver commesso reati.
Tra gli oppositori si è subito diffuso il timore che un maggiore controllo della Cina sul sistema giudiziario di Hong Kong potesse degenerare in una futura repressione del dissenso politico. A giugno le prime fiaccole di protesta sono sfociate in grandi manifestazioni per i diritti civili.
Le tensioni politiche con la Cina nascono dalla particolare situazione di Hong Kong. Pur essendo territorio cinese, la città-isola mantiene uno status di autonomia dal 1997.
Lo slogan «un Paese, due sistemi» adottato dal governo di Pechino, sta a sottolineare proprio questa spaccatura: Hong Kong è a tutti gli effetti parte della Cina comunista, ma ha mantenuto il proprio sistema capitalistico e le caratteristiche democratiche.
Di fronte al divampare della protesta, che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone, la governatrice Carrie Lam si è vista costretta a sospendere l’emendamento fino a data indefinita.
Un’escalation di tensioni
Nonostante la sospensione dell’emendamento, le proteste sono continuate per il timore di un suo reinserimento: i manifestanti ne chiedevano infatti il ritiro definitivo.
Gli attriti tra polizia e dimostranti si sono fatti sempre più tesi e sono sfociati in un’inevitabile spirale di scontri, con il progressivo crescere del fronte violento della protesta. A luglio alcuni contestatori hanno vandalizzato una facciata del Parlamento.
Ad agosto gli scontri si sono spinti fino all’aeroporto di Hong Kong, causando la cancellazione di centinaia di voli. A fine mese, un corteo pacifico organizzato dal Civil Human Rights Front è stato vietato e in più di un’occasione le forze dell’ordine hanno aperto il fuoco per disperdere le folle, causando molteplici feriti.
Il ritiro dell’emendamento è arrivato a settembre, quando per i protestanti era ormai «troppo poco, troppo tardi». Le manifestazioni sono continuate e le tensioni si sono fatte sempre più aspre, fino ad arrivare alla situazione odierna.
La natura del movimento è cambiata: ora i contestatori domandano piena democrazia, amnistia per gli arrestati e un’investigazione sulle brutalità commesse dalle forze dell’ordine cinesi. La protesta ha assunto respiro internazionale e manifestazioni a supporto dei dimostranti si sono diffuse in tutto il mondo: dagli Stati Uniti alla Francia, passando per Regno Unito, Canada e Australia.
Proprio nelle ultime ore, l’Alta Corte di Hong Kong ha dichiarato incostituzionale il divieto dell’uso di maschere introdotto lo scorso mese dalla governatrice, facendo leva sulla legislazione d’emergenza.
Una piccola concessione, che difficilmente basterà a placare la protesta: diffusa la notizia, sui social sono immediatamente comparse foto e video di persone che si scambiano maschere, preparandosi già al prossimo sit-in.
A Hong Kong sono ore di fuoco: la Perla d’Oriente brucia, e il mondo sta a guardare.