Dall’eroe virgiliano, compendio di virtus e di tedio, sino all’accidia medioevale. Quella mancanza di senso che si è estesa, dalla stanza di un poeta di Recanati sino alle pagine di Moravia, ha vissuto sotto i nomi più diversi, quanto vari sono stati i tentativi di attribuirle un significato. Per Franca Valeri, è sempre stata il sentimento del tempo presente. Perché di noia non si muore, ma ci si ammala. «La pandemia si è diffusa quando abbiamo smesso di telefonare con i gettoni», quando la vita è diventata a misura d’uomo. Così facile, senza fatica. «La fatica era ingegno, la fatica era invenzione, la fatica era amore. Il mondo era più bello quando ce ne era molta».
Nelle pagine del nuovo pamphlet einaudiano dell’attrice e autrice, Il secolo della noia, autobiografia e pensiero, ironia e intelligenza si intrecciano per dare vita a un’analisi caustica del nostro tempo. Attraverso i ricordi che corrono in folla alla mente di colei che fu “la Signorina snob”, spaziando dal teatro ai legami affettivi, e con un passo difficile da raggiungere, Franca Valeri ripercorre gli anni febbrili del suo Novecento, confrontandoli con i gangli di oggi. In una lotta serrata da cui emerge un solo vincitore: la penna dell’autrice.
Novantanove anni il 31 luglio. Quasi un secolo portato con i capelli sopra le spalle e gli abiti di scena. Quasi un secolo trascorso tra il palco e la sua casa di Balduina, circondata dai dipinti di Colette Rosselli (con la quale intrecciò un sodalizio lungo e fruttuoso, sostenuto da Indro Montanelli). Eppure l’ha delusa. È l’avvento del Terzo Millennio, quel tempo disadorno, oltre che noioso. «Credersi al centro dell’universo tocca a chiunque sia consolidato dalla televisione, da Internet e dai social network», scrive l’autrice nel suo zibaldino di pensieri. «Vedo troppa gente convinta di conoscersi, mentre è evidentemente l’ultimo scopo della loro vita», affetti da quella malattia a cui Moravia dedicava il suo romanzo nel 1960. Ma per lei, approdata in teatro quasi per caso, dopo aver rivelato le sue doti satiriche nei salotti mondani e intellettuali milanesi, le “noie” non sono tutte uguali. «C’è quella in cui si sbadiglia aspettando la fine del giorno senza scopo e c’è, invece, quella più insopportabile in cui è lo scopo che si rivela noioso. La noia è un sentimento eroico, se ti afferra sulla tomba di un eroe o se lo vivi dietro un vetro in attesa di un amante ritardatario».
Ma forse la noia è solo un anestetico: per non continuare a sentirsi fuori luogo nel secolo in cui si è capitati. «Paolo Uccello avrebbe preferito farsi conoscere su Internet: è molto più difficile avere un pubblico che non aspettare il lento cammino della storia dell’arte». Spietata, lucida, come nelle sue tante apparizioni.
Cresciuta nella trasmissione radiofonica Il rosso e il nero, in cui ritraeva con gesto enfatico le ipocrisie della borghesia contemporanea, ha esordito in teatro nel 1951, recitando nello stesso anno nel suo primo film, Luci del varietà di Alberto Lattuada e Federico Fellini. A questo hanno seguito molte altre pellicole, come Il segno di Venere di Dino Risi, Il bigamo di Luciano Emmer, e Io, io, io… e gli altri di Alessandro Blasetti.
Icona gay quando ancora non era di moda esserlo (nel 2003, in occasione dei dieci anni del “Garofano Verde”, la rassegna di teatro omosessuale della Capitale, vi ha partecipato leggendo alcuni passaggi del romanzo Scende giù per Toledo di Giuseppe Patroni Griffi), con la sua “Sora Cecioni” che è diventata un cult negli spettacoli di drag queen, Valeri ha vissuto cento vite. Dialogando con l’Arte, la Scienza e il Teatro, «quel signore che mi ha accompagnato per tutta la vita», e che oggi, manco a dirlo, «è di una noia mortale». Soddisfatta dei suoi anni? Chi può dirlo. Forse il segreto della felicità lo aveva già svelato in Bugiarda, no reticente, tra impegno e sentimento: «La nostra generazione era preparata, soprattutto nella morale. Aspettare. Riscuotere. Amare e riamare, riderci sopra. Ricordare la vita, con la giusta proporzione dei sentimenti».