Se al di là dell’oceano, Uruguay, Canada e alcuni stati Usa da tempo hanno legalizzato la produzione, la vendita e il consumo della marjiuana, anche a scopo ricreativo e non solo terapeutico, in Italia le motivazioni della sentenza, emessa il 30 maggio scorso dalle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione, già alimentano le incertezze sul futuro delle migliaia di negozi che commercializzano la cannabis light. E di altrettante posti di lavoro. L’esultanza della Lega e di Matteo Salvini, che si era detto disposto a smantellare uno a uno i punti vendita, stona rispetto ai risultati conseguiti da un settore, quello della canapa, che solo nel 2018, ha fatturato oltre 40 milioni di euro.
No a olii, resine o infiorescenze, da cui si ricavano l’hashish o la marijuana, anche se la percentuale di principio attivo (Thc) è al di sotto dello 0,6%, questo è uno dei divieti imposti dai giudici alla vendita di prodotti derivanti dalla cannabis light, anche detta depotenziata o sativa.
Cannabis light, paradosso “all’italiana”
Quel che sta accadendo in Italia è però un vero e proprio paradosso. Perché negli ultimi due anni in tanti hanno investito sulla produzione e la vendita della cannabis light, con l’entrata in vigore della legge 242 e l’avvio di un programma di microcredito da parte dello Stato, volto a sostenere produttori e commercianti di canapa.
Nel frattempo il Consorzio nazionale di tutela della canapa ha commissionato uno studio per il risolvere il dubbio legato al «limite drogante», mentre per ora 14 gruppi di coordinamento regionale, che riuniscono più di 200 «imprenditori» – così si definiscono i commercianti dei negozi di cannabis light – si sono già organizzati a livello nazionale, per tentare di affrontare i dubbi «interpretativi» creati dal Legislatore e dai giudici e aprire un tavolo al ministero dello Sviluppo Economico o intraprendere una class-action.
I tentativi di bloccare il processo di legalizzazione della cannabis light in Italia sono iniziati nel 2018, quando il Consiglio Superiore di Sanità aveva bocciato la vendita della canapa nei negozi e nei market, nonostante l’aumento del numero dei punti vendita nelle principali città – Milano e Roma in testa – e il moltiplicarsi di portali online per la commercializzazione a distanza. La risposta del Css, a un quesito posto dal segretario generale del ministero della Salute, poneva ulteriori incertezze sulla «pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa» che, secondo gli esperti, «non può essere esclusa».
Mentre nel nostro Paese il consumo di cannabis resta autorizzato a scopo terapeutico – il livello di Thc in questo caso oscilla tra il 5% e l’8% – dietro prescrizione medica, per alcune patologie gravi, come la fibromialgia, la sclerosi multipla e il cancro, la vaghezza delle norme sul consumo «a scopo ricreativo» ha generato confusione sull’effettiva legalità della cannabis.
Giurisprudenza “ondivaga”
E’ proprio su questo punto che la stessa Corte di Cassazione ha avuto diversi tentennamenti interpretativi. Nel gennaio di quest’anno la IV sezione penale si era già pronunciata sulla «liceità della commercializzazione di infiorescenze ad uso ricreativo», e lo aveva fatto in modo positivo alla luce della legge 242 del 2016, pensata per sostenere prima di tutto il settore agroalimentare. Poi un’inversione, con la sentenza del 30 maggio 2019.
La legge italiana – come quella europea – ammette la produzione di alimenti, cosmetici, semilavorati – fibre, olii o carburanti – e materiali utili per la bioedilizia, solo per citare alcuni dei prodotti leciti derivati dalla cannabis. E, allo stesso tempo, impone limiti, tra i più rigidi in Europa, alla presenza di Thc.
I negozi “green” e i portali web vendono così la cannabis con un livello di Thc tra lo 0,2% e lo 0,6%. Percentuali che inibiscono l’effetto drogante tipico della marijuana o dell’hashish, considerate sostanze stupefacenti, la cui detenzione o lo spaccio restano penalmente perseguibili.
Intanto, è facile acquistare la cannabis persino al tabaccaio, anche se non è chiaro se sia lecito fumarla. E le motivazioni della Corte di Cassazione lasciano intendere che, al di là dei paletti, ciascun giudice ha il potere di decidere caso per caso, anche quando la Polizia abbia predisposto dei sequestri. Verificando «l’idoneità in concreto (dei prodotti) a produrre un effetto drogante». Una disposizione che se fa pensare a pene tenui o, a casi di non punibilità, sembra prefigurare ulteriori oneri per i magistrati. Legati ora a doppio filo a una giurisprudenza ambigua e a un Legislatore pavido.