«Seguii con interesse il draft del 1999 per vedere chi sarebbero stati i miei prossimi compagni di squadra. Alla fine del secondo giro i San Antonio Spurs chiamarono un certo “Emanuel Ginobìli”. Non avevo mai sentito questo nome in vita mia, telefonai subito a Gregg Popovich per capire chi fosse questo giocatore. “Non ti preoccupare” rispose lui, “sono sicuro che questo ragazzo andrà alla grande”». Oggi Tim Duncan ci scherza sopra, ma all’epoca le perplessità su quel Manu Ginobili da Bahia Blanca erano tali e tante da sfociare quasi nell’indifferenza. Gli Spurs lo scelsero e lo “parcheggiarono” nel vecchio continente, dove aveva già avuto modo di farsi notare con la casacca di una società italiana. Era il 1998 quando Gaetano Gebbia, un guru della pallacanestro giovanile in Italia, sedeva sulla panchina della Viola Reggio Calabria, squadra che ai tempi militava in serie A2. Qualche anno prima, proprio da quelle parti, avevano militato due giocatori argentini, Hugo Sconochini e Jorge Rifatti. Entrambi, ogni volta che giungevano nuove dal Sud America, udivano le meraviglie di una guardia smilza e smaliziata che in maglia Estudiantes metteva a ferro e fuoco le difese avversarie con le sue scorribande mancine.
Rifatti e Sconochini convinsero coach Gebbia a mettere le mani sul giovane Manu, all’epoca poco più che ventenne. Una scelta che impiegò pochissimo a rivelare i suoi frutti: già al suo esordio, in una sfida di coppa Italia contro la Bini Viaggi Livorno, Ginobili firmò 32 punti di puro talento, levando ogni dubbio sulle sue qualità al pubblico del PalaCalafiore, l’impianto di casa della Viola. Fu l’esordio col botto che collimò con la promozione in serie A di cui Manu fu assoluto protagonista. Come in una favola, le sirene sulle meraviglie dell’uomo da Bahia Blanca giunsero alle orecchie degli scout americani che, sebbene con le dovute perplessità, segnarono il suo nome sul taccuino.
Torniamo dunque al draft del 1999. I San Antonio Spurs non godevano certo di una lotteria fortunata, ma si trattava pur sempre della squadra che aveva appena vinto il titolo NBA, un gruppo che già di suo girava a meraviglia. Il dictat dirigenziale era semplice: “Qui non cambia niente, stiamo bene così”. Al primo giro gli “speroni” scelsero per ultimi e selezionarono Leon Smith, dimenticabile ala grande destinata a finire presto nel giro delle leghe minori. Ginobili venne chiamato al secondo turno, alla penultima chiamata disponibile, la 57. In pratica fece appena in tempo a presentarsi sul palco, sorridere con indosso il cappellino della squadra e stringere la mano a Grass Grenick, il vice del commissioner David Stern. Come detto rimase in Europa, precisamente ancora per 3 anni. Nel 2000 passò dalla Viola Reggio Calabria alla Virtus Bologna, entrando a far parte di un collettivo che solo due stagioni prima era salito sul tetto d’Europa. Il dominio di Manu con l’allora Kinder fu totale: uno scudetto, due coppe Italia e un’Eurolega, tutti trofei sollevati da autentico mattatore e che lo consacrarono a stella assoluta del basket europeo.
Nel 2002 gli Spurs decisero che i tempi erano maturi per esercitare i propri diritti su Ginobili, che approdò in NBA a 25 anni. Un inizio altalenante; Gregg Popovich era un coach che amava ragionare, giocare contro la difesa schierata. Una filosofia che non si sposava appieno con l’estro del mascalzone latino. Come tanti grandi amori, il rapporto tra i due cominciò con qualche turbolenza, anche se “Pop” ebbe comunque la lungimiranza nel vedere il fuoco che quel ragazzo aveva dentro. La storia gli avrebbe dato ragione. Oggi Manu Ginobili è un ex giocatore che si è lasciato alle spalle una delle carriere più vincenti della storia dello sport. Non solo i 4 titoli NBA conquistati con gli Spurs, ma anche le gioie con la maglia dell’Argentina, quella “generaciòn dorada” che vinse l’Oro olimpico ai giochi del 2004. La sera del 28 marzo la sua maglia col numero 20 è stata issata sul soffitto dell’AT&T Center di San Antonio, nessuno la indosserà più. Si è ritirato a 41 anni con la voglia di giocare di un ragazzino, fregiato della bramosia di battere l’uomo e schiacciare in testa al centro avversario che invano tenta di stopparlo. Quelle gesta, il pubblico texano non le ammirerà più, ma sopra le loro teste troneggerà sempre il nome di quel ragazzo argentino che fino all’ultimo tango diede tutto per la causa.