Dai piumini Moncler agli stivali Timberland; dalle cinture El Charro ai montoni Schott, passando per le felpe Best Company, le cartelle Naj-Oleari, i bomber Avirex e i jeans Americanino. Tutti capi d’abbigliamento che, nella maggior parte dei casi, forse ai giovani milanesi d’oggi diranno poco o nulla. Eppure sono stati veri e propri oggetti di culto per un’intera generazione. I tratti distintivi di una subcultura che, all’ombra della Madonnina, ha attraversato tutti gli anni ‘80: quella dei paninari.
Una storia milanese
«Si tratta dell’unica subcultura interamente made in Italy – spiega l’artista psichedelico Matteo Guarnaccia, esperto di storia del costume–. Il che rappresenta già di per sé un fatto degno di nota. In più, i paninari furono il primo gruppo giovanile post anni ‘60 a glorificare il consumo in tutte le sue forme, anticipando molte tendenze che in futuro avrebbero legato il mondo della moda a quello degli stili da strada». A stupire fu però un altro elemento: la loro attrazione verso tutto ciò che era americano. «Fino a quel momento – prosegue Guarnaccia – gli Usa erano sempre stati considerati negativamente. Imperialismo, militarismo, opulenza: nulla di tutto ciò veniva apprezzato. I paninari, invece, vollero farla finita con i vecchi modelli pauperistici e iniziarono a promuoverne di alternativi».
Nacque così un piccolo, grande fenomeno locale in grado di fare tendenza perfino oltre i confini nazionali. Merito principalmente di un singolo del 1986 dei Pet Shop Boys, complesso britannico tra i più in voga a quei tempi. «Passion and love and sex and money / Paninaro, paninaro, oh oh oh»: così recita l’incipit di un pezzo che, tra ipnotiche sonorità elettroniche, ben illustra le priorità esistenziali di quei ragazzi cresciuti all’ombra dei fast food del centro storico. In primis il Burghy di piazza San Babila, aperto nel 1981. Ma a inaugurare la tendenza fu, già qualche tempo prima, il locale Al Panino della vicina piazza Liberty. Lo stesso al quale è dovuta la denominazione stessa di “paninaro”, coniata – si dice – da un giornalista del Corriere della Sera.
L’usanza di ritrovarsi abitualmente nei soliti posti, associata alla condivisione di valori prettamente edonistici quali il consumismo, la vanità e il gusto per l’eccesso, ha dunque costituito il fondamento di un’ideologia capace di innescare forti processi di appartenenza e di segnare una netta cesura con il passato. D’altra parte, nelle stesse piazze in cui i paninari discettavano di moda e adulavano i Duran Duran, nel decennio precedente regnava un’asperrima tensione ideologica tra le opposte fazioni studentesche. Da una parte i sanbabilini di destra, dall’altra gli statalini di sinistra. Dall’impegno politico al disimpegno sociale.
La questione dei marchi fu l’emblema di tale transizione. «I paninari – sottolinea ancora Matteo Guarnaccia – furono i primi a maturare un’attenzione esasperata verso i brand, sostenendone il primato rispetto alle mere caratteristiche dell’abito. Presto diventò dunque importante esibirli, e questo anche al fine di riaffermare il proprio status sociale. Solo qualche anno prima, invece, pur di non essere ricondotti al mondo del consumo i giovani eliminavano dai capi d’abbigliamento ogni possibile segno distintivo: toglievano il coccodrillo dalla Lacoste, tagliavano l’etichetta sui Levi’s e via dicendo. Fu una rivoluzione. Si anticipò il futuro».
Il tutto, nel quadro di un fermento (sub)culturale non indifferente. Ambientati nell’universo paninaro sono infatti due film del 1986, Italian Fast Food e Sposerò Simon Le Bon, mentre le riviste dedicate fiorirono a decine. Quella di maggior successo fu il fumetto Paninaro, che arrivò a tirare fino a 100 mila copie. Ne derivò il consolidarsi di uno slang particolarmente distintivo, vero e proprio lasciapassare per entrare a far parte a pieno titolo della comunità. Se dunque termini come “sfitinzia”, “arterio” e “al brucio schizzare” si sono persi nel corso degli anni, altri sono sopravvissuti fino ai nostri giorni, seppur con connotazioni un po’ vintage.
Nostalgia canaglia
A perpetuarne l’eredità sono oggi gruppi di irriducibili nostalgici ben più ampi di quanto un occhio ingenuo possa inizialmente supporre. Non a caso, almeno due volte all’anno i loro assidui contatti sui social network finiscono col tradursi in vere e proprie reunion. Locali preferiti? Quelli del centro. Nei luoghi degli anni che furono.
Tra le principali vestali dell’eredità paninara figura oggi Alessandro Pallavidini, in arte Ando, autore nel 2015 del brano L’ultimo dei paninari, una summa dell’immaginario collettivo dell’epoca. «Essere paninari significava innanzitutto essere sempre riconoscibili, anche da lontano – racconta–. Certo, l’abbigliamento era fondamentale, ma altrettanto importante era anche il nostro “luogo di culto”, ossia il fast food». In questo senso, il paragone col presente è presto fatto: «Una volta lo strumento di aggregazione era il posto. Oggi invece è solo il post, quello di Facebook: realtà contro virtualità». Ma come mai un giorno tutto finì? «Accadde improvvisamente, non ci fu ricambio generazionale. D’altra parte si trattava di un fenomeno prettamente giovanile: nessuno di noi lavorava. Poi le cose cambiarono». Il bilancio finale, a distanza di anni, è lucido e onesto: «Cito una mia canzone: se gli anni ‘70 furono gli anni di piombo, gli anni ‘80 furono gli anni di latta, ovvero quelli della superficialità. Abbiamo avuto la fortuna di vivere un periodo di transizione – quello compreso tra le stragi e tangentopoli – nel quale il Paese attraversava una fase di consumismo paragonabile forse solo a quella verificatasi durante il boom economico. Questa congiuntura fu alla base della nascita dei vari gruppi giovanili di allora. E anche se ormai i fast food che frequentavamo non esistono più, oggi alcuni di noi vestono ancora allo stesso modo».