A Montgomery, nel sud dell’Alabama, è il tardo pomeriggio di un autunno che inizia a contornarsi d’inverno. Rosa Parks è stremata da un’intera giornata passata sulla macchina da cucire, si trascina alla fermata dell’autobus pensando alla manciata di ore di riposo che le restano prima di ricominciare. Il bus 2857 arriva, Rosa sale e trova subito un sedile. Fermata dopo fermata il mezzo continua ad affollarsi, in pochi minuti rimangono solo posti in piedi. Sale un passeggero bianco, si avvicina al posto occupato da Rosa e le intima di concederglielo.
La Parks è un’afroamericana che vive nel sud degli Stati Uniti nel 1955. A quel tempo, una donna di colore che su un autobus rifiuta di cedere il posto ad un bianco commette un reato. L’uomo la squadra, in attesa che lei osservi le regole e si alzi, ma lei sostiene il suo sguardo con fierezza e risponde con un secco “no”. In quel no c’è racchiuso l’orgoglio nero che da troppo tempo cova sotto la cenere, ormai in procinto di esplodere. L’autista del bus osserva la scena attraverso specchietto retrovisore e decide di fermare la vettura. Si avvicina a Rosa, le ribadisce di liberare il sedile e rispettare le leggi, ma riceve dalla donna un nuovo rifiuto. Scattano l’arresto, una condanna e una multa di 10 dollari più 4 di spese processuali. La Parks torna il libertà la sera stessa, il suo avvocato bianco e antirazzista Clifford Durr le paga la cauzione.
Quell’episodio è giunto ai posteri come la miccia scatenante dell’emancipazione afroamericana nel cuore del ‘900. Il pastore protestante Martin Luther King colse l’occasione per prendersi la sua prima vittoria politica: organizzò un boicottaggio di massa dei mezzi pubblici in segno di protesta contro la vicenda Rosa Parks. Quell’orribile legge sulla segregazione negli autobus venne definitivamente abolita di lì a pochi mesi.
Gli anni ’60 segnarono un periodo di transizione tra vecchi e nuovi costumi, diedero il via a un lento processo di sensibilizzazione che ancora oggi non ha terminato la sua parabola. Eroi come Luther King e Malcom X morirono perché impegnati a restituire dignità a una minoranza, un sacrificio che nel tempo li ha resi simboli di un cammino verso l’uguaglianza che persino nel 2019 tenta di smarcarsi dall’utopia.
Nello sport
Alla sua maniera il mondo dello sport si fece portavoce di un nuovo vento, la brezza leggera che soffiava sulla parità dei diritti. Due esempi significativi si possono individuare nel basket americano: anno 1963, i Boston Celtics sono la squadra più forte di un circuito professionistico diviso tra NBA ed ABA (le due leghe statunitensi che si sarebbero poi fuse nel 1976). Bill Russell è la stella di quella squadra, un afroamericano di oltre due metri che nell’arco di un’irripetibile carriera è riuscito a rivoluzionare la fase difensiva della pallacanestro. Un giorno si trova con la squadra a bordo di un aereo diretto a Lexington (Kentucky), dove i Celtics sono attesi per una partita d’esibizione. Durante il volo, uno degli assistenti allenatori si avvicina a lui e ad altri due compagni di colore: «Ragazzi, quando arriviamo In città voi andate a fare il check-in in un albergo per soli neri. Da quelle parti funziona così, mi dispiace». Bill solleva la testa, restituisce all’assistente uno sguardo severo, i suoi occhi non tradiscono alcuna emozione: «Giocate pure la vostra partita tra bianchi. Appena atterriamo prendo il primo aereo e torno dritto a casa mia».
Ancora pallacanestro, ancora anni ’60. A College Park, nel Maryland, si gioca la finale NCAA valida per il titolo del 1966. Il piccolo Texas Western College (oggi la University of Texas di El Paso) si qualifica all’ultimo atto da autentica Cenerentola del tabellone. Di fronte la blasonata Kentucky University, già vincitrice di 4 titoli nazionali. L’allenatore, Adolph Rupp, si è sempre rifiutato anche solo di convocare un giocatore di colore che sia uno. Texas Western si presenta in campo con un quintetto di cinque ragazzi afroamericani, una prima volta assoluta nella storia dello sport sia collegiale che professionistico. Texas Western a sorpresa si aggiudica la vittoria, lasciando impresso nella memoria un risultato che va al di là del semplice valore sportivo. Dalla vicenda è stato tratto anche un film nel 2006 (Glory Road – Vincere cambia tutto).
Un’immagine tra le più iconiche nel mondo dello sport – e non solo – risale alle Olimpiadi 1968 di Città del Messico. Tommie Smith e John Carlos giungono rispettivamente primo e terzo nella finale dei 200 metri piani. Una volta saliti sul podio e ricevute le medaglie, i due chinano la testa e sollevano il pungo chiuso avvolto da un guanto nero. Il fotografo John Dominis cattura uno degli scatti più significativi del ‘900, riconsegnato alla storia come simbolo di un popolo che lotta per i diritti civili.
Nel cinema
Ancora una volta gli anni ’60. Stanley Kramer è un regista che dopo un inizio da produttore ha deciso di mettersi dietro la macchina da presa. Lo sceneggiatore William Rose gli mette in mano una storia che parla di una coppia di innamorati: bianca e aristocratica lei, stimato medico afroamericano lui. Un idillio amoroso che deve scontrarsi con due famiglie conservatrici e riluttanti all’idea di un matrimonio “misto”. Nel 1967 quella sceneggiatura si trasforma in un film dal titolo “Indovina chi viene a cena?”, un’opera che all’epoca in cui vede la luce affonda come una lama sulle piaghe sociali nel sud degli Stati Uniti.
Oggi, a oltre cinquant’anni di distanza, quei temi sono ancora materia d’attualità. I casi e gli esempi non si esauriscono certo qui. Lo sport e il cinema riempiono gli occhi di tolleranza, uguaglianza e fraternità, sono testimonianza di un tessuto sociale che nonostante tutto continua a mutare, trasportato in una nuova dimensione dalle coscienze di chi ha avuto il coraggio di dire basta. Un grido che per farsi sentire è dovuto salire sulle spalle dei giganti, donne e uomini a cui rivolgere un semplice grazie. Persone che oggi ci consentono di guardare al futuro con un pizzico di speranza, nella memoria e nel rispetto di ciò che è stato e non dovrà essere mai più.