«Perché non siamo competitivi? Semplice, negli ultimi 20 anni all’estero hanno fatto molti cambiamenti mentre l’Italia non ha fatto niente. Adesso li stiamo facendo ma ci vuole pazienza». A spiegarlo è il ct della Nazionale italiana di rugby, Conor O’Shea, subentrato nel 2016 al francese Jacques Brunel. Nato 47 anni fa a Limerick, nella Repubblica d’Irlanda, O’Shea è l’uomo scelto dalla Federazione per portare la palla ovale tricolore a una competitività ai massimi livelli che, a oggi, manca ancora. Compito non semplice, anche se l’esperienza c’è: da ex giocatore l’irlanderse ha collezionato 35 presenze con la nazionale del suo Paese, da allenatore ha vinto la prestigiosa Premiership inglese con gli Harlequin.
«Lo dico sempre: dobbiamo avere resilienza alle sconfitte, perché il nostro futuro è domani». E’ stato questo il mantra del ct dopo gli ultimi test match di novembre, che hanno confermato la mancanza di continuità contro le più forti: gli Azzurri hanno battuto brillantemente Fiji, perdendo però contro Argentina e Sudafrica. Tutto questo con sullo sfondo un movimento vivo, con oltre 80mila tesserati, e che fa registrare il tutto esaurito di pubblico durante le partite ufficiali. Il ricordo del cucchiaio di legno nel 6 Nazioni del 2017 (il secondo consecutivo dopo quello del 2016) fa ancora male, ma per O’Shea il futuro sarà tutto dalla parte degli Azzurri. A partire dalla grande sfida dell’Olimpico di Roma il prossimo 4 febbraio contro l’Inghilterra, match d’esordio del prossimo 6 Nazioni.
Domanda. Lei dice sempre che “non ha la bacchetta magica” e che per migliorare il rugby italiano ci vuole tempo. Ma nello specifico, cosa manca all’Italia?
Risposta. «Questo sport è prima di tutto fitness, cura della forma fisica. Ma non è possibile cambiare il nostro livello di preparazione in un giorno, perché se si esagera per i ragazzi non va bene. Tutti devono capire che è un prerequisito fondamentale e in questo siamo già molto meglio di prima».
Che situazione ha trovato al suo arrivo in Italia?
«Negli ultimi venti anni all’estero hanno fatto molti cambiamenti a livello di strutture e organizzazione, mentre l’Italia non ha fatto niente. Adesso invece stiamo facendo molto. La differenza fra noi e gli altri non è incolmabile, ma in questo momento c’è. Con un buon sistema, le giuste strutture e un adeguato livello di allenamento possiamo ricucire questo gap. Le nostre accademie traboccano di giovani talentuosi. Fra dieci anni vorrei andare allo stadio a Roma per una partita e vedere una grande squadra italiana. Io lavoro adesso, ma lo faccio per il nostro futuro».
Quindi si immagina per molti anni alla guida della Nazionale Azzurra…
«Io lo spero, anche se gli allenatori sono giudicati per i risultati nel breve termine. E ottenerli è difficile, anche se non impossibile. Nei prossimi due anni credo che vivremo tante belle giornate. Sono molto fiducioso per il gruppo che sta nascendo».
Beh, lei dice che ci sono giovani di talento. Quali saranno le star di domani?
«Nelle nostre scuole ci sono tanti ragazzi dall’enorme potenziale. I nomi? Se ne faccio, poi corro il rischio di dimenticare qualcuno e non mi sembra giusto. Però tutti abbiamo visto le prestazioni in Nazionale di Giovanni Licata (Terza linea delle Zebre, ndr), tornerà il pilone Simone Ferrari e poi c’è Mattia Bellini (tre quarti ala, ndr) che ha un futuro radioso davanti a sé».
Com’è la giornata tipo di un ct della Nazionale di rugby?
«Quando non sono con i ragazzi, cerco di vedere tutte le partite e incontro tutti gli altri allenatori. Quello di ct è un lavoro diverso rispetto a quello di un allenatore di club: se alleni una nazionale giochi poche partite in un anno, mentre se disputi un campionato ne fai molte di più. Devo dire, però, che mi sto divertendo molto».
Lei ha vinto un campionato in Inghilterra, uno dei tornei di rugby qualitativamente elevati al mondo. Che differenze ci sono con i nostri club?
«Le differenze ci sono, è ovvio. Però in Inghilterra, Irlanda e Scozia hanno avuto problemi esattamente come i nostri. Loro però hanno fatto i cambiamenti necessari molti anni fa e noi invece li stiamo facendo solo ora, questo è il problema. In Inghilterra il lavoro è iniziato già da 15 anni e adesso hanno ottenuto strutture valide e molti giocatori giovani».
E noi?
«Noi ci stiamo avviando a fare lo stesso. Anche se non abbiamo gli stessi soldi dell’Inghilterra o della Francia, perché in queste nazioni ci sono molti più investimenti nel rugby. Noi abbiamo due franchigie e le nostre dimensioni limitate sono sia la nostra forza che la nostra debolezza. Al netto di questo, ritengo che siamo sulla giusta strada».
E’ difficile fare le stesse cose con meno soldi, dice questo?
«I soldi sono importanti, ma non sono tutto. E’ ovvio che sarebbe bello avere, come accade in Inghilterra, un nutrizionista full time a disposizione. Magari non solo per la Nazionale, ma anche per le franchigie. In ogni caso, abbiamo lo stesso abbastanza per crescere: lo ripeto, per prima cosa lavoriamo sull’allenamento».
Insomma, sarà difficile vedere grandi risultati nel breve termine…
«Quando scendiamo in campo, giochiamo per vincere. Sempre. Anche se ai ragazzi dico: chi giudica me guarda ai risultati, ma io voglio giudicarvi per la prestazione. La cosa importante è che facciamo i cambiamenti necessari per il nostro futuro».