Circa duecento bambini sono stati concepiti con lo sperma di un unico donatore che, a sua insaputa, era portatore sano di una mutazione genetica grave. Se ereditata, la sindrome di Li-Fraumeni – così si chiama – aumenta fino al 90% il rischio di ammalarsi di cancro nel corso della vita.
Non è la trama distopica di un film fantascientifico, ma la scoperta frutto della collaborazione tra alcuni giornali e tredici emittenti televisive pubbliche europee (tra cui la BBC). Il donatore, soprannominato Kjeld e di origine danese, ha generato la nascita di 197 bambini in tutta Europa tra il 2006 e il 2022.
A MasterX le voci del professor Giuseppe Novelli, Responsabile dell’Unità di Ricerca in Genetica Umana all’Università Tor Vergata di Roma, il professor Paolo Gasparini, docente di Genetica Medica all’Università degli Studi di Trieste e la dottoressa Faustina Lalatta, medico specialista in Genetica Medica e Pediatria all’Humanitas Research Hospital di Milano.
Di che mutazione parliamo
L’uomo al centro della vicenda aveva iniziato a donare il suo sperma quando era ancora uno studente. Si era affidato alla European Sperm Bank di Danimarca, una delle banche del seme più importanti al mondo. Senza saperlo, Kjeld (il vero nome rimane ignoto) era portatore sano di una mutazione nel gene TP53.
Lo spiega il professor Novelli: «Il donatore aveva superato i controlli di screening standard, ma era portatore di una mutazione germinale mosaico nel gene TP53, che però interessa solo il 20% dei suoi spermatozoi. I figli concepiti con quegli spermatozoi ereditano la mutazione in tutte le loro cellule. È presumibile che, dei 197 figli nati, circa il 20% – diciamo 40 bambini – abbia ereditato la mutazione».
Ma cosa comporta, di preciso, una simile alterazione del gene TP53? «È una mutazione – continua Novelli – che predispone al rischio di sviluppare più tumori nell’arco della vita con una probabilità molto elevata, attorno al 90%, spesso in età pediatrica. Il rischio è così elevato perché questo gene, che chiamiamo “il guardiano del genoma” in quanto guardiano generale dell’integrità del DNA, non funziona come dovrebbe in presenza della sindrome. Se “il guardiano” non c’è, la probabilità di ammalarsi aumenta».

Il gene TP53 è infatti un «gene oncosoppressore», precisa la dottoressa Faustina Lalatta. «Guida la produzione di una proteina coinvolta in numerosi processi cellulari – continua – come la riparazione del DNA e l’arresto della crescita. Una variante dannosa di questo gene rende suscettibile l’organismo allo sviluppo di malattie oncologiche di vari organi, ad esordio precoce. La condizione è denominata sindrome di Li-Fraumeni».
Una malattia ereditaria che comporta fino al 90% di probabilità di sviluppare almeno un tipo di tumore entro i 60 anni. Circa metà dei pazienti ne sviluppa uno entro i 40 anni. I tumori compaiono spesso in età pediatrica o giovanile, e chi è portatore rischia di sviluppare più tumori indipendenti nel corso della vita. L’inchiesta ha rivelato che diversi dei bambini concepiti con il seme del donatore danese si sono già ammalati o, in alcuni casi, sono già morti.
“Ma non sono stati fatti i controlli al donatore?”
È una domanda rimbalzata con prepotenza sui social fin da quando è circolata la notizia. Migliaia di utenti continuano a chiedersi: “Ma non dovrebbero eseguire dei test per capire se il soggetto è idoneo a donare?”, o ancora “Ma come si fa a non fare tutti i controlli del caso?”. È proprio questo il quesito più istintivo e immediato che viene da porsi di fronte a una vicenda del genere. La risposta però è complessa.
«Certo che hanno fatto i controlli», esordisce Novelli. «Parliamo di un donatore sano, di uno studente che stava bene e a cui hanno fatto tutti gli screening che si fanno normalmente per verificare se sei portatore di malattie comuni e di mutazioni genetiche frequenti. Ma questi mosaici germinali non sono rilevabili attraverso i controlli standard.
Sono degli “errori” che accadono nel nostro organismo, magari rilevabili in un tessuto e non in un altro. Se ad esempio si analizza solo il sangue, lì non si riscontra la mutazione. Perché può trovarsi nel cervello o in altre parti del corpo».
Sull’impraticabilità di screening genetici completi, si esprime la dottoressa Lalatta: «In genetica clinica non esiste il concetto di screening completo, perché nessun pannello di geni analizzati sarebbe mai sufficientemente ampio. Lo screening esteso invece è già praticato in molte cliniche private di PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) e propone test che servono a ridurre i rischi per le malattie più frequenti, ma hanno molti limiti. Soprattutto perché non possono tener conto delle nuove mutazioni che, per definizione, si realizzano al momento del concepimento».

E al riguardo aggiunge: «In casi simili, più che lo screening genetico, aiuta una buona e accurata anamnesi familiare estesa a tre generazioni con la registrazione di tutti i consanguinei e con l’identificazione, per ogni soggetto deceduto, della causa di morte».
Le prime segnalazioni sul donatore Kjeld
Già nell’aprile del 2020, L’European Sperm Bank era stata informata che un bambino nato da una delle donazioni era affetto da cancro e presentava la rara mutazione genetica. Le vendite di sperma erano state sospese. Ma allora l’analisi di un campione non aveva poi fatto emergere l’anomalia, e di conseguenza le vendite erano riprese. Solo tre anni dopo, nell’ottobre del 2023, l’azienda era stata di nuovo informata su un altro bambino affetto dalla sindrome di Li-Fraumeni. Erano stati quindi ripetuti i test su vari campioni ed era stato confermato che il donatore Kjeld era portatore della mutazione. Le vendite del suo sperma erano state bloccate definitivamente.
In ogni caso, precisa Novelli: «Ognuno di noi quando nasce si porta dietro almeno 100-200 mutazioni che i nostri genitori non hanno. Non esiste un DNA perfetto, nessuno ce l’ha».
E poi continua: «Quello che si può fare è attuare uno screening mirato più esteso e includere altri geni. Ma serve anche l’implementazione di registri internazionali per poter rintracciare tutti i dati di un donatore in caso di una segnalazione retroattiva di una mutazione grave. Fondamentale è anche informare chi si sottopone alla fecondazione assistita che lo screening, per quanto rigoroso, non può escludere i rischi genetici rari».
200 bambini da un unico “padre”
I numeri parlano da sé: Il donatore Kjeld ha venduto il suo sperma a 67 cliniche in 14 paesi tra il 2006 e il 2022. Una delle questioni centrali che si aprono è quella dell’assenza di confini: non esistono limitazioni univoche a livello globale sulla quantità di donazioni che possono essere fatte da una singola persona.
«In Italia la legge 40 impone un limite di 10 nascite per donatore, quindi esiste un limite sul territorio nazionale. – spiega Novelli della Tor Vergata – Ma ci sono casi noti all’estero di donatori che hanno generato più di 550 figli. In Belgio, ad esempio, la legge limita l’uso del seme di un singolo donatore a sei donne diverse, ma nessuno vieta che questo donatore possa aver concepito altri 50 figli in Paesi al di fuori dal Belgio».
E aggiunge: «Questo crea il problema della consanguineità involontaria. Perché è chiaro che se tu fai 100-200 figli, questi un domani potrebbero essere legati da un grado di parentela in modo del tutto accidentale. La soluzione potrebbe essere quella di creare delle regole chiare, trasparenti e limitative a livello internazionale».
Il problema delle donazioni oltreconfine
Sul far west legislativo nel resto del mondo, il dottor Gasparini dell’Università di Trieste è dello stesso avviso: «Il quadro è molto eterogeneo e sarebbe certamente utile avere almeno un normativa europea».

«Sicuramente – precisa la dott.ssa Lalatta – i controlli non sono sufficienti a garantire che le regole attuali vengano rispettate. Con un singolo donatore si potrebbero generare centinaia di concepimenti, spendendo molto meno e con maggiore semplicità. Pensiamo ad esempio a un donatore con un seme di elevata qualità, senza infezioni, in buona salute, giovane e che dichiara tutto ciò che desideriamo sentire».
Sono molti, infatti, i Paesi che impongono un numero massimo di nascite per donatore, ma non esiste alcuna normativa internazionale che limiti le donazioni oltreconfine. Questo sistema permette il superamento dei limiti nazionali. Proprio in Belgio, risultano essere 53 i bambini nati dal donatore Kjeld, nonostante il limite all’interno dello Stato sia di 6 figli per donatore. Ma tenere traccia delle donazioni non è semplice, soprattutto quando le persone si rivolgono all’estero per il percorso di fecondazione in vitro.
“Mio figlio ha la sindrome di Li-Fraumeni, cosa devo fare?”
Ma come dovrebbe comportarsi, quindi, una famiglia che scopre che il proprio figlio o figlia ha ereditato una mutazione grave come la sindrome di Li-Fraumeni? La prima cosa da fare, secondo il professor Gasparini, è «Consultare una serie di specialisti a partire da un genetista per la consulenza, e poi ovviamente il pediatra esperto in oncologia».
Al riguardo approfondisce Novelli: «La prevenzione è molto importante, serve a seguire e monitorare lo sviluppo e i segnali di alcuni tumori. Anche perché non è detto che tutti i pazienti si ammalino. La probabilità è molto alta, ma non è del 100%. Perché ognuno ha un suo DNA, che a volte protegge dallo sviluppo della malattia, quindi i pazienti vanno tenuti sotto controllo in modo da esser pronti a intervenire».
Sull’importanza di tutelare la salute di chi convive con la sindrome di Li-Fraumeni, conclude Faustina Lalatta: «Qualora la variante sia ereditata è necessario che i genitori vengano indirizzati al centro di riferimento regionale per la diagnosi e il trattamento dei tumori di origine ereditaria in età pediatrica. Per la Lombardia è l’Istituto Nazionale dei Tumori. Esistono percorsi diagnostici-terapeutici già predisposti per sorvegliare i bambini e gli adolescenti a rischio. E anche i genitori vengono formati a riconoscere segni e sintomi che indicano una possibile neoplasia».